Quella di Seydou e Moussa è la storia della scimmia nomade, l’uomo, è l’esodo ebraico, l’odissea omerica, l’avventura spaziale o quella di Colombo... è il racconto dell’avventura umana, coi suoi annessi psicologici, fatta di speranza, di sacrificio, di ingiustizia, di cattiveria, di umanità, di vittoria (non quella artificiale dello sport)... è la storia delle storie, e insieme l’analisi della questione politica centrale del mondo contemporaneo, quella dello squilibrio fra mondo Occidentale e mondo Altro, e dell’inarrestabile processo di travaso e omeostasi che ne deriva. Questo tema semplice e potente, cardiaco si potrebbe dire, richiedeva un linguaggio filmico essenziale, purificato, basico,
e Garrone rinuncia alla visionarietà, al favolismo e al pittoricismo dei film precedenti, e utilizza i moduli del documentario e del racconto epico. La storia, raccontata ai bravissimi attori mattina per mattina sul set, si dispone da sola sullo schermo. Il Senegal è un paese colorato, vivo, pulsante, ma dove un lavoratore guadagna 50, 100 euro al mese, e ha un tenore di vita proporzionato, e un’aspettativa di vita di 52 anni. Come tutti i paesi del polo non occidentale, è attratto irresistibilmente dall’Occidente, e Seydou e Moussa non possono che cercare di raggiungerlo, come fisicamente tentano di fare centinaia di migliaia di africani, e come in senso più ampio, culturale, sociale, antropologico, fanno tutti gli altri non occidentali. Cercano una condizione d’esistenza migliore, cercano la felicità. La storia è vera, e lungamente e realisticamente documentata (io frequento assiduamente il Senegal),è girata in wolof con i sottotitoli, scelta che all’inizio lascia perplessi, ma ha una sua ragion d’essere profonda che si evidenzia nella concitata, ammassata e babelica sequenza finale; ci fa vivere empaticamente il dramma dell’immigrazione dal punto di vista dell’immigrato, e spazza via tutte le sciocchezze sul tema propagandate da una certa parte politica. Qui lo scafista è addirittura insieme il salvatore e la vittima, e appare chiara la stupidità e la malafede del voler ridurre alle sue funzioni e interessi un epocale e inaggirabile problema antropico, legato semmai alla colonizzazione psichica e culturale. Molte le scene indimenticabili, da quella dei ragazzi che nel cimitero, in un’alba livida, chiedono perdono agli antenati per aver ingannato le madri, a quella di Seydou che sogna di far volare l’anziana donna abbandonata durante la marcia nel deserto, fino a quella finale, quando appare il profilo della costa italiana, e nelle lacrime di Seydou si confondono il dolore, la fierezza del capitano che ha salvato il suo disperato equipaggio, e la gioia ineffabile e profonda di chi immagina un futuro. Come nel dialogo leopardiano di Colombo e Gutierrez, la narrazione si congela nel momento dell'attesa, nell'istante carico di futuro, in cui tutto può ancora accadere.
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