Il libro è Sonecka, di Marina Ivanovna Cvetaeva, e me lo ha
messo fra le mani Domenico Pinto, a un mio compleanno, prelevandolo da una
delle sue 3 librerie di disperato capitalista della parola, e cioè di nulla.
La riga è questa: “Addio,
Marina” (e poi, ingoiando una montagna) “Ivanovna”.
Premesse: La Cvetaeva racconta in questo libro il suo amore per l’attrice-bambina Sonecka,
e quello che vi si intreccia, in un gioco a 3 specchi, per il circa-attore Volodja. Tutti e 3 gli amori non si risolvono in un rapporto fisico, ma forse per questo raggiungono picchi di tensione estrema. L’amore fra M. e V. è anzi probabilmente il più tenace e profondo, fondato com’è nel comune senso di giustizia e rettitudine, rispetto ai 2 rapporti affettivi che coinvolgono la patetica e fantastica Sonecka. Come segno insieme di deferenza e esclusività, V. chiama sempre M. apponendovi il patronimico, Ivanovna.un addio
Un addio si verifica raramente in una vita, molto più frequenti
sono gli arrivederci. Ma denotiamo come addio, più generalmente, anche un
arrivederci particolarmente significativo, e che comunque, anche non escludendo
un reincontro, comporta la fine definitiva di qualcosa.
In un addio 2 persone o enti si separano o separano parte di
sé definitivamente, la rimandano o raccomandano a-dio, a un al di là, un
assoluto, un non-linguistico. Topologicamente, si può rappresentare con una
linea che si biforca in 2 semirette divergenti all’infinito. Un addio è una
divergenza - non reversibile. Se noi siamo fatti dell’altro, degli altri, un
addio è un’amputazione, uno strappo, una lacerazione. Marina non c’è più in
Volodja, e l’inverso. Ma V. era, per un pezzo, M.. Qualcosa dell’io di
linguaggio è trasferito, asportato dall’area di competenza dell’individuo, dal
suo essere/avere, al demanio sovraindividuale dell’indefinito, in qualche modo del
divino.
V. è commosso, forse piange o piangerà. Se si piange, il
corpo che ci racchiude si rammollisce, sgoccia, si liquefa, forse si rifà
amnio, mare, acqua salata. O almeno inghiotte acqua, saliva, deglutisce – fa un
glu dentro.
Per esprimere l’intensità del trauma, e misurare la parte di
sé asportata, la Cvetaeva usa mezzi semplici, belli e potenti. Un’immagine
iperbolica, irreale, che fa da indice, e la scarnificazione assoluta del
racconto, ridotto alle 3 parole (1,2, pausa, 3) di V.. Questo addio fa il
rumore elegante e concavo di una sciabolata, ha la luce di un paesaggio immobilizzato
da un fulmine, e l’impercettibilità di un filo d’erba. Come avviene spesso nel
libro, la C. si lascia scrivere da ciò che racconta (le parole di S., V., i
loro atti). La scrittrice è la scriba, che registra il dettato di qualcosa che è
“più prima” di lei.
Lasciando tutto il nome, Volodja lascia tutta Marina. Finché
ha detto solo Marina, ha ancora parti di Marina dentro di sé, rilasciando anche
Ivanovna, lo strappo è avvenuto, gli organi plastici psichici in cui Marina si
era andata a strutturare nel suo io diffuso e linguistico, sono recisi
dall’ultima sillaba. Nel patronimico usato per apostrofarla unicamente da lui,
si carica infine tutto il peso dell’unicità del rapporto. E’ come se tutto quel
rapporto attuale e reale, fatto di minuti e spazi, di cose concrete in quei
minuti e spazi, tutto quell’accadere irripetibile, riaffluisse in quel segno,
che infatti Volodjia quasi stentava a rilasciare, voleva trattenere, tenere
stretto nella sua gola.
Il gesto è misurato dall’indice metaforico fra parentesi, ma
la quantità è incommensurabile: essendo impossibile ingoiare una montagna,
fornendo una misura impossibile, la Cvetaeva denota un assoluto, un metalinguistico.
Nello stesso tempo, la concisione e l’eleganza matematica
dell’espressione rasserena l’evento nella sfera dell’estetico, la consegna alla
bellezza, la distanzia nell’imperturbabilità di ciò che è ben disposto,
armonico, giusto.
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