lunedì 16 maggio 2022

una riga (di Marina Cvetaeva)

 

 Il bello di non essere letto è che posso altamente impiparmene di tutto, e scrivere su una riga sola di un libro. In generale dei libri mi/ci interessano solo alcune righe, ma poi siamo costretti (dal nostro stesso successo!) a scrivere di tutto l’eccipiente che gli sta attorno.

Il libro è Sonecka, di Marina Ivanovna Cvetaeva, e me lo ha messo fra le mani Domenico Pinto, a un mio compleanno, prelevandolo da una delle sue 3 librerie di disperato capitalista della parola, e cioè di nulla.

La riga è questa: “Addio, Marina” (e poi, ingoiando una montagna) “Ivanovna”.

Premesse: La Cvetaeva racconta in questo libro il suo amore per l’attrice-bambina Sonecka,

e quello che vi si intreccia, in un gioco a 3 specchi, per il circa-attore Volodja. Tutti e 3 gli amori non si risolvono in un rapporto fisico, ma forse per questo raggiungono picchi di tensione estrema. L’amore fra M. e V. è anzi probabilmente il più tenace e profondo, fondato com’è nel comune senso di giustizia e rettitudine, rispetto ai 2 rapporti affettivi che coinvolgono la patetica e fantastica Sonecka. Come segno insieme di deferenza e esclusività, V. chiama sempre M. apponendovi il patronimico, Ivanovna.

un addio                                                 

Un addio si verifica raramente in una vita, molto più frequenti sono gli arrivederci. Ma denotiamo come addio, più generalmente, anche un arrivederci particolarmente significativo, e che comunque, anche non escludendo un reincontro, comporta la fine definitiva di qualcosa.

In un addio 2 persone o enti si separano o separano parte di sé definitivamente, la rimandano o raccomandano a-dio, a un al di là, un assoluto, un non-linguistico. Topologicamente, si può rappresentare con una linea che si biforca in 2 semirette divergenti all’infinito. Un addio è una divergenza - non reversibile. Se noi siamo fatti dell’altro, degli altri, un addio è un’amputazione, uno strappo, una lacerazione. Marina non c’è più in Volodja, e l’inverso. Ma V. era, per un pezzo, M.. Qualcosa dell’io di linguaggio è trasferito, asportato dall’area di competenza dell’individuo, dal suo essere/avere, al demanio sovraindividuale dell’indefinito, in qualche modo del divino.

V. è commosso, forse piange o piangerà. Se si piange, il corpo che ci racchiude si rammollisce, sgoccia, si liquefa, forse si rifà amnio, mare, acqua salata. O almeno inghiotte acqua, saliva, deglutisce – fa un glu dentro.

Per esprimere l’intensità del trauma, e misurare la parte di sé asportata, la Cvetaeva usa mezzi semplici, belli e potenti. Un’immagine iperbolica, irreale, che fa da indice, e la scarnificazione assoluta del racconto, ridotto alle 3 parole (1,2, pausa, 3) di V.. Questo addio fa il rumore elegante e concavo di una sciabolata, ha la luce di un paesaggio immobilizzato da un fulmine, e l’impercettibilità di un filo d’erba. Come avviene spesso nel libro, la C. si lascia scrivere da ciò che racconta (le parole di S., V., i loro atti). La scrittrice è la scriba, che registra il dettato di qualcosa che è “più prima” di lei.

 

Lasciando tutto il nome, Volodja lascia tutta Marina. Finché ha detto solo Marina, ha ancora parti di Marina dentro di sé, rilasciando anche Ivanovna, lo strappo è avvenuto, gli organi plastici psichici in cui Marina si era andata a strutturare nel suo io diffuso e linguistico, sono recisi dall’ultima sillaba. Nel patronimico usato per apostrofarla unicamente da lui, si carica infine tutto il peso dell’unicità del rapporto. E’ come se tutto quel rapporto attuale e reale, fatto di minuti e spazi, di cose concrete in quei minuti e spazi, tutto quell’accadere irripetibile, riaffluisse in quel segno, che infatti Volodjia quasi stentava a rilasciare, voleva trattenere, tenere stretto nella sua gola.

Il gesto è misurato dall’indice metaforico fra parentesi, ma la quantità è incommensurabile: essendo impossibile ingoiare una montagna, fornendo una misura impossibile, la Cvetaeva denota un assoluto, un metalinguistico.

Nello stesso tempo, la concisione e l’eleganza matematica dell’espressione rasserena l’evento nella sfera dell’estetico, la consegna alla bellezza, la distanzia nell’imperturbabilità di ciò che è ben disposto, armonico, giusto.

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