Nell’era mediatica la verità “vince sempre” solo per sbaglio, quando coincide con la follia delle masse. Non è stato così nel caso della sentenza contro Scattone e Ferraro, il cui caso è stato riproposto ieri sera da Rai 2. Il bel documentario – Marta, il delitto della Sapienza – rievocava la figura, la storia e il caso giudiziario di Marta Russo, studentessa uccisa nel 1997 da una pallottola vagante. Nessuno può essere certo, ovviamente, dell’innocenza di Scattone, nemmeno chi ne è convinto come me. Ma chiunque abbia una cultura non solo tecnicistica e positivista come quella della maggior parte dei giudici, può essere certo che quella sentenza è stata ingiusta, e che nessun “ragionevole grado di certezza” è stato raggiunto. Si voleva un colpevole a tutti i costi, e un colpevole è stato trovato. Non si può condannare un uomo senza alcun riscontro obiettivo e senza alcun movente, in base esclusivamente a 2 testimonianze chiaramente estorte, inquinate e contraddittorie: quella di Maria Chiara Lipari, che all’inizio non ricordava nulla e poi ha “ricostruito” il ricordo dopo oltre 2 mesi, estraendolo “dall’ano della mente” secondo le sue stesse parole, e quella di Gabriella Alletto, che nelle riprese e le intercettazioni (in un primo tempo nemmeno ammesse agli atti), ignara di essere ripresa, gridava e giurava sui figli di non saperne nulla, e poi, dopo un interrogatorio a dir poco intimidatorio e ricattatorio (si rimanda al sito www.scattoneferraro.org) in cui era posta di fronte all’alternativa di essere condannata lei o Scattone, con la testa bassa e lo sguardo duro di chi sa che deve giocoforza mentire ha rinnegato tutto. Fra l’altro, durante questo interrogatorio, non conoscendo ancora il nome del secondo inquisito, chiedeva al questurino “bisognerebbe sapere chi è l’altro”, per poterlo accusare.
La mente umana allucina, ricostruisce, anzi la neuropiscologia ci spiega che è quello il suo normale funzionamento, e un innocente che si vede sul punto di cadere in un ingranaggio ingiusto non si fa scrupolo di far cadere nell’ingranaggio qualcun altro al posto suo. E’ così che in Italia dal dopoguerra in poi sono stati commessi secondo attendibili statistiche 4 milioni di errori giudiziari, tutti accertati e risarciti, è così che sono stati condannati Socrate, Cristo, Giordano Bruno, centinaia di presunte streghe, gli untori della peste manzoniana, Dreyfus, Sacco e Vanzetti, Valpreda, Tortora e 100 altri. Ci sono 1000 persone che testimoniano di aver visto la Madonna, e lo scienziato Swedenborg che giura di aver parlato quotidianamente con gli angeli, ma ce ne sono altri 1000 che invece hanno visto Allah che gli ordinava di uccidere quei 1000 che hanno visto la Madonna. Non è così che si fa giustizia.Ripropongo l’articolo che scrissi all’epoca, dopo aver a
lungo studiato il caso e aver conosciuto direttamente Scattone e il padre.
Il giudice e la
testimone.
Una riflessione
sul valore della testimonianza a partire dal caso Scattone-Ferraro.
di Livio Borriello
Essere innocenti è
pericoloso, perchè non si ha un alibi
B. Makaresko
Umbra profunda sumus
Giordano
Bruno
Il mese scorso per la terza volta una corte italiana ha
condannato Giovanni Scattone, Salvatore Ferraro e Francesco Liparota per l’
omicidio di Marta Russo. Le pene, rispettivamente 6 anni per omicidio colposo e
4 e 2 anni per favoreggiamento, sono in massima parte già state scontate dagli
imputati in presofferto (e mai termine fu più adeguato). Con la prudenza cui ci
si attiene di solito in questi casi, la
maggior parte degli osservatori si sono astenuti da commenti sul merito della
sentenza, e hanno manifestato fiducia nell’operato della Magistratura. Tuttavia
– posto che la giustizia è tutt’altro che infallibile e che le considerazioni
di chi si sia fatta un’avveduta opinione dei fatti ne sono sempre state un
necessaria forma di controllo - si ha l’impressione che negli ultimi anni le
corti italiane abbiano emesso una serie di giudizi così sconcertanti, che
questa prudenza comincia ad assomigliare sempre più a colpevole ignavia e
incapacità di indignarsi. Il caso di Scattone e Ferraro sembra essere anzi una
dimostrazione del fatto che l’indignazione etica, quella vera, quella che nasce
dal rispetto per l’altro uomo e dalla compassione per la sua sofferenza, stia
per passare di moda nella nostra società per essere sostituita da una sorta di
suo degradato simulacro, l’indignazione politica e strumentale, simulata ai
fini dei propri interessi. Si tratta infatti di un caso in cui la posta in
gioco non è il potere o lo screditamento dei propri avversari, ma un ideale di
giustizia, oltre che il destino di due disgraziati esseri umani, e che proprio perciò sembra avere suscitato
reazioni piuttosto superficiali
nell’opinione pubblica, nella stampa e
nel dibattito politico. Superfluo far notare come l’attuale Governo, quando si
è trattato di difendere nella persona di Previti i propri interessi
politici, abbia mosso mari e monti,
arrivando addirittura a proporre, approvare e applicare una nuova legge con una
celerità e un’efficienza inaudite, mai viste nella storia della nostra
Repubblica – e come invece l’alto sentimento etico che l’aveva ispirato si sia
misteriosamente afflosciato negli altri casi.
Il problema di
Scattone e Ferraro va dunque inquadrato nel problema più ampio della perdita di
credibilità della giustizia italiana, una giustizia troppo lenta e troppo
imprecisa, che sbaglia troppo e fa troppo poco, che si accanisce con tragica
dabbenaggine su un Enzo Tortora e non sa opporsi a mafia e camorra, che
condanna in base a testimonianze senza riscontro Sofri e Andreotti (per citare
due casi noti dietro cui si deve supporre un incalcolabile sommerso), e tollera di fatto corruzioni e peculati,
evasioni fiscali, abusi edilizi, che protegge i parlamentari e lascia languire
nelle carceri migliaia di cittadini in attesa di giudizio. Come vedremo tutto
ciò innesca un meccanismo perverso per cui l’ingiustizia pregressa, e la
conseguente sfiducia nella giustizia, produce nuova ingiustizia.
Le contraddizioni dell’imputazione.
Evitando
accuratamente di perdersi in quell’ammasso di dati secondari da cui sembra
essere sotterrata la verità in molti processi italiani - a
lume di intelligenza, buon senso e quell’onestà consentita dal disinteresse le
contraddizioni dell’imputazione sono facilmente riassumibili. Manca
completamente il movente. Secondo l’accusa, avendo Scattone tenuto un corso sul
delitto perfetto, sarebbe quello di
dimostrarne l’eseguibilità, per una
scommessa o per una specie di sfida perversa. Ma chiunque trova incredibile che
due ricercatori universitari, si suppone dotati di un minimo di
raziocinio, organizzino un delitto
perfetto alla presenza di 3 testimoni, con la porta aperta, alle 11 di mattina
in un’aula universitaria. La tesi del colpo partito inavvertitamente dopo
un’improbabile esercitazione in aula, e dell’omicidio colposo, è contraddetta
dal fatto che soprattutto Liparota, ma a questo punto anche Ferraro
e lo stesso Scattone, continuino a non confessare, quando ormai, con le
riduzioni del patteggiamento, avrebbero già scontato le esigue pene loro
spettanti. Tutta l’inchiesta è stata
costruita su un presupposto non solo indimostrabile, ma contraddetto dalle
perizie più recenti, e cioè che lo sparo sia partito dall’aula 6 e non dal
bagno dei disabili della Facoltà. Sulla base di queste false ipotesi sono state ricercate, torchiate ed
estorte le testimonianze di Gabriella
Alletto e Maria Chiara Lipari. Come spesso accade in questi casi è crollato il
presupposto ma non il castello accusatorio costruito su di esso. In sostanza
gli unici indizi a carico sono queste due testimonianze. Ma si tratta di
dichiarazioni entrambe incerte, per vari aspetti inverosimili, contraddette in fasi successive dalle
testi, prodotte oltre 35 giorni dopo il
delitto e innegabilmente inquinate dalle modalità degli interrogatori.
Il video-choc e l’interrogatorio dell’Alletto.
Il fatto più
incredibile è che la prova di questo inquinamento, il cosiddetto video-choc,
che documenta come l’interrogatorio sia stato inequivocamente suggestivo, per usare il puritano linguaggio giuridico, o
in termini più aderenti scandalosamente ricattatorio e intimidatorio (ammissibile, a voler essere elastici, al
massimo come provocazione della teste, mai come prova), sia stata ignorata per
tutto il corso del processo. Innanzitutto il video non è stato acquisito agli
atti per 5 anni – come se ciò che quel video riproduceva non fosse mai esistito
e come se in questo periodo Scattone e Ferraro non avessero sofferto in galera.
Gli addetti ai lavori, credendo con ciò di dare segno di alta coscienza e
competenza giuridica, ci spiegano che ciò è dovuto a ragioni formali ineludibili. Ma ci possiamo chiedere: se in
quella cassetta fosse stato mostrato l’assassino che sparava, sarebbe stata
acquisita? Se la risposta è no, la giurisprudenza che regola questi casi ci appare assurda e aberrante, se la risposta
è sì, dobbiamo ammettere che essa è rigorosa solo quando la sua assurdità e
aberrazione non sia evidente, e dunque è altrettanto assurda e aberrante. E’
evidente quindi che esiste innanzitutto un problema di legislazione e di
procedure. Il 29 novembre di quest’anno
il video è stato acquisito, ma i giudici
– forse per attenuare il tardivo pentimento -
hanno dichiarato che non cambiava sostanzialmente i termini della
questione e hanno ribadito la condanna di colpevolezza. Qui il problema dunque
sembra essere un altro.
Se è vero che ci sta il Cristo io non lo so, guardi....
Nel video si vede
la testimone chiave, Gabriella Alletto
che, ignara di essere ripresa,
piangendo, giura sulla testa dei suoi
figli al cognato questurino di non saperne nulla del delitto, di essere
matematicamente certa di non essere entrata nell’aula 6 , e via di questo passo
per ore. Usa un linguaggio estremamente immediato, credibile, espressivo (se è
vero che ci sta il Cristo, io non lo so, guardi...), manifesta emozioni che
nessuna consumata attrice sarebbe in grado di simulare. La parola, si
dice, è stata inventata per mentire, ma
il corpo, coi suoi moti appena percettibili, con le sue reazioni fisiologiche
involontarie - per chi lo sa leggere non
mente, e in quella cassetta il corpo conferma esattamente ciò che dichiara la
parola. Tutto ciò finché a un certo punto gli inquirenti cominciano a
minacciare l’interrogata di coinvolgerla nell’imputazione. In sostanza
l’inquirente ha messo l’Alletto di fronte alla scelta di essere accusata di
omicidio o favoreggiamento, o di discolparsi scaricando l’accusa su Scattone e
Ferraro. Mors tua, vita mea, è una delle frasi eloquenti pronunciate da
uno degli inquirenti. A questo punto è evidente che nell’Alletto è scattato
quel tipico meccanismo per cui la paura di subire un’ingiustizia porta a
commetterne una reale, diciamo preventiva e compensatoria. Essa, già spossata da ore di interrogatorio, si è vista minacciata da un colossale
ingranaggio kafkiano, più grande di lei, che per quanto innocente avrebbe
potuto stritolarla impietosamente, come
accaduto in tanti casi giudiziari precedenti. Dopo questa minaccia la Alletto
comincia a chiedersi cosa vogliano i
giudici da lei – Bisognerebbe sapere chi è quell’altro oltre a Ferraro - dice al cognato dimostrando inequivocabilmente con questa frase
sfuggitale incidentalmente, e proprio perciò rivelatoria: 1) di non aver mai
visto Scattone nella stanza; 2) di
essere entrata nell’ordine di idee di assecondare le aspettative degli
inquirenti. I giudici, come è mostrato nel video, le suggeriscono i nomi di
Scattone e Ferraro, gli unici indiziati senza alibi. Non entriamo in ulteriori
particolari, il video è di pubblico dominio (si rimanda al sito
www.scattoneferraro.org), ricordiamo
solo che Romano Prodi, allora Presidente del Consiglio, se ne indignò in un
durissimo intervento alla Camera. Due giorni dopo, 37 dopo il delitto, la Alletto cambia versione, e da questo
momento fino alla fine del processo sosterrà, con gli occhi bassi e la voce
impostata, di aver visto Scattone sparare. Le corti le hanno creduto.
Molti altri elementi screditano pesantemente la Alletto. Ad esempio, se veramente avesse
visto Scattone sparare, non si spiega perchè non sia intervenuta a discolpare
Zingale, in un certa fase del processo indagato per l’omicidio, nè perchè, per giustificare questo comportamento, abbia
addotto di non sapere dove questi fosse
all’ora del delitto, dato che per lei
sarebbe dovuto essere del tutto superfluo. Durante l’interrogatorio del video,
invece, ha retto per ore a esporre la sua tesi in maniera perfettamente
coerente e plausibile da un punto di vista linguistico, logico, psicologico, evidentemente perchè si riferiva a
un’esperienza reale.
L’altra
testimonianza, quella di Maria Chiara Lipari, appare ancora più incerta,
essendo stata letteralmente ricostruita dalla teste (estratta “dall’ano della
mente” secondo le sue stesse parole) , sulla base ancora di suggerimenti degli
inquirenti, dopo un periodo di black-out
mnemonico durato oltre due mesi, e dopo
una sarabanda di affermazioni contraddittorie. Come se il tempo rafforzasse la
memoria invece di indebolirla, come se la memoria fosse un archivio di dati
immagazzinati e definitivi, e non fosse,
al pari dell’immaginazione, funzione delle passioni del soggetto, come se la mente umana fosse una struttura
inerte e meccanica, e non un ammasso
omogeneo di neuroni attraversato di continuo da processi dinamici di
rielaborazione degli stimoli esterni. Sugli inganni, le sviste, gli abbagli
della memoria esiste una vasta letteratura, esemplare è un saggio di Sciascia,
significativamente intitolato Il teatro della memoria, che analizza
l’incredibile caso dello smemorato di Collegno.
Testimoni diabolici
A questo punto è possibile svolgere alcune osservazioni più
ampie, generali e approfondite sul caso. Osserviamo innanzitutto che la
Giurisprudenza vanta fra le proprie branche una disciplina detta Psicologia
giudiziaria, che mai come in questo caso ci appare essere un puro esercizio
teorico, o un fregio disciplinare. Secondo uno dei suoi padri italiani, Altavilla, attraverso questo strumento il
giudice dovrebbe “sorprendere la verità in un pallore, in una contraddizione
dell'imputato, nella parola di un teste, nell'apprezzamento di un perito “. In
questo video, più che attenta a non farsi sorprendere, la verità, almeno quella
psicologica, sembrava volersi mettere in mostra a tutti i costi, ma senza che
nessuno l’abbia notata per 5 anni. La questione naturalmente è complessa e
delicata, perché un giudizio psicologico
può essere un giudizio interpretativo, può derivare da un’impressione
soggettiva e fallace. Ci si deve fidare, dice la Giurisprudenza, dei dati
inoppugnabili. Ma siamo sempre alla questione posta precedentemente, i dati
inoppugnabili non esistono nemmeno in matematica e fisica, figuriamoci nel
diritto, e questo rigido tecnicismo è in
realtà un falso rigore, un surrogato equivoco e pericoloso del rigore. La
realtà è che non può esistere sistema giuridico che non si fondi su una
psicologia implicita (oltre che su una filosofia, su un’etica, e un
estetica), perché il giudizio è parola dell’uomo sull’altro uomo, perché
umano è il giudice, umano l’imputato, umana la vittima, umano il testimone.
E quel che eccede, esubera nell’uomo
dall’animale, è semplicemente e soltanto la psiche, ovvero un sistema di
reazioni che non ha nulla di meccanico e
lineare. Nel caso in esame, tutti hanno
fatto psicologia, ma una psicologia
rudimentale proprio perchè inconsapevole: la pubblica opinione quando ha
supposto in base al comportamento controllato di Scattone che fosse un cinico,
gli inquirenti quando hanno cercato di calcolare delle reazioni emotive nei
testi (ma, è probabile, ignorando Lacan,
secondo cui l’inconscio è il discorso
dell’altro invertito), i testi quando hanno temuto le prevenzioni dei giudici,
i giudici quando hanno creduto alle prime e non alle seconde deposizioni di
Liparota, e alle seconde ma non alle prime della Alletto, e così via, fino al
legislatore che ha stabilito le condizioni che rendono attendibile una
testimonianza. Dunque il problema non è
negare una psicologia, ma, consci della sua imperfezione, approssimarla quanto più possibile alla realtà. Bisogna insomma prendere atto della necessità
che ogni giurisprudenza vada adeguata da
una parte alla nuova struttura psichica
dell’uomo che è giudicato, dall’altra alla nuova conoscenza dell’uomo
che deve giudicare (che spesso è peraltro semplicemente un giovanotto che ha
vinto un concorso e ha fatto un paio di anni di tirocinio), consci del fatto
che l’inadeguatezza attuale si va
divaricando sempre più man mano che la psiche umana si fa complessa e stratificata – incrinata e complicata dal
progresso della conoscenza, o solo dal
trascorrere in sé del tempo, che ne approfondisce incessantemente la memoria
storica e culturale. Tutto ciò riguarda particolarmente il problema delle
testimonianze, della loro attendibilità, della necessità dei riscontri, e dei
rischi del pentitismo.
La menzogna non è
certo una novità nell’universo, dato che la sua origine risale alla caduta
degli angeli dal Paradiso e dunque all’esistenza del diavolo (dia-bolos in greco significa appunto
calunniatore). Tuttavia mentre le scienze umane hanno evoluto meccanismi
estremamente sofisticati per smontarla, non è stato trovato un modo efficace
per trasferire e applicare queste conoscenze nelle discipline giuridiche. La giurisprudenza sembra fondarsi sul
presupposto che la menzogna sia una specie di incidente di percorso della
parola. La menzogna, invece, o più precisamente
l’opposizione fra menzogna e verità, fra diabolos e symbolon, è
intrinseca alla parola stessa. In qualche senso è la possibilità stessa
dell’individualità, di un io separato dall’esterno, che si fonda sulla
possibilità di mentire, di filtrare il mondo escludendo l’altro
attraverso una rete di omissioni e
rimozioni . E così anche lo strumento giuridico della testimonianza, che
viene adoperato così meccanicamente dalla giurisprudenza, è intriso di questa
ambiguità. In altri termini, il diritto fa per propria comodità un uso
fisico, materiale della testimonianza che non è tecnicamente possibile,
trattandosi di un prodotto umano,
incerto, che non ha la controllabilità dei materiali rigidi ma è fatto della
sostanza molle e inaffidabile della psiche.
I percorsi dell’errore
D’altra parte, se la consapevolezza culturale di queste
problematiche è un approdo in definitiva recente delle scienze umane, ai giudici sembrerebbe da imputare in molti
casi anche l’ignoranza più grossolana di
quelle descrizioni empiriche dell’errore che sono da sempre patrimonio della
cultura. Gli esempi sono innumerevoli, dai processi a Galileo o a Bruno, alle
analisi di Zola, a quel capolavoro misconosciuto che è la Storia della
colonna infame di Manzoni, fino alle osservazioni di Sciascia sul caso Tortora.
Quel che emerge da questi testi è che i percorsi dell’errore giudiziario sono
sempre gli stessi . La ricerca affannosa del colpevole, dettata da ragioni di
salvaguardia del prestigio giudiziario, in senso personale o collettivo, o più oscuramente dall’aggressività latente
verso l’altro uomo, la pervicacia dei giudici nelle proprie convinzioni
iniziali; la testimonianza viziata dal
ricatto psicologico, dalla paura, o semplicemente dalla suggestione e l’istinto
di imitazione di quella specie gregaria che è l’uomo; la difesa di lobbies e
gruppi di potere a scapito di altri più deboli,
i pregiudizi ideologici, la rete
di vincoli giudiziari troppo stretti, e le colleganze fra giudici e pubblici
ministeri; il difetto di immaginazione della giurisprudenza, il tecnicismo, il
formalismo procedurale; fino ad altre più oscure e sottili, come quella specie di assimilazione kafkiana
fra colpa e imputazione, per cui l’accusato viene automaticamente ritenuto colpevole, e
confermato tale dai meccanismi della selezione positiva; i torbidi odi o
semplici ma altrettanto micidiali antipatie, spesso aventi ad oggetto il debole
o il diverso, non di rado l’intellettuale, comunque colui in cui non ci si
riconosce. E’ strano che dei giudici coscienti quanto ci si aspetta da loro,
non riconoscano questi meccanismi quando essi si ripresentano, è strano che in
un caso come quello di Tortora, non si
siano posti, come fece Sciascia, quel ragionevole dubbio in presenza del
quale la costituzione impone l’assoluzione dell’imputato.
Certo, giudicare,
ius dicere, dire il giusto, è difficile, è porsi al di sopra dell’umano essendo
uomini, e non per nulla è funzione e competenza che è sempre stata delegata in
ultima istanza alla divinità. Proprio perciò, essendo uomini, sembra che non ci sia altro modo per
approssimarsi a una giustizia ideale,
che l’essere consapevoli della nostra limitatezza e fallibilità, e
dunque imparare a fondare il giudizio in quella sua alonatura metafisica che è
il dubbio, a dubitare prima che a giudicare, a dubitare ancora, forse, mentre
si giudica.
Per una discussione
ancora più approfondita delle problematiche etico-giuridiche legate alla
testimonianza, rimando al mio saggio La parola giuridica e la parola
letteraria, facente parte del volume collettaneo Diritto di parola, a cura di Felice
Casucci, Edizioni Scientifiche Italiane 2009, adottato come testo nel corso di
Diritto e Letteratura dell’Università del Sannio 2009-2010 – e rintracciabile
in rete
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