La luce di Bruno letta da Ugo Simeone.
5 opere, Plettro, Tetrade, Atrio, Armonia, Area, che
rappresentano una serie di asterismi, di figure informi, sospese e incantate
nel nero, in un nero siderale e primigenio. Cosa rappresentino queste complesse
e stratificate figure non si può dire. Possono essere sigilli che racchiudano
un’archeo immagine, una monade o aleph potenziale e inesauribile, possono
essere le tracce pervenute fino a noi di una pulsazione di fondo dell’universo,
di un fulgore originario e elementale, o possono essere gli escrementi di quel
particolare essere animato che secondo Giordano Bruno è l’universo, “essendo che da le parti et escrementi di
quello derivano gli animali che noi chiamiamo perfettissimi” (De la causa,
principio et uno) .
Del potere, della forza e della violenza dell’immagine era
ben consapevole Bruno, che attestava che ex
specie visa plurimi repente mortui sunt (a molti è accaduto di morire dopo
aver visto un’immagine - Theses de
magia).
Lavorare sulle opere di G. B., è lavorare nello spazio
dell’essenziale, dell’ontologico, dell’incondizionato. Un’immagine non è una
decorazione, e nemmeno una rappresentazione. Così come fare arte non è fare salotto, non è addobbare o agghindare l’esistente, e non è nemmeno documentarlo o interpretarlo. Fare arte è esporsi al non linguistico, all’irrappresentabile (l’ infigurabile, secondo l’espressione di Bruno), è gettarsi nell’immagine come in un’avventura herzoghiana, è una pericolosa e esaltante operazione di suscitazione teurgica.
In questo stesso rapporto al segno si pone Ugo Simeone, che
si è sempre tenuto al di sotto e al di sopra del mercato e del marketing, dei
traffici degli artisti più in voga, degli sgomitamenti e le arroganze del giro
dell’arte ufficiale. Simeone lavora per anni a 1, 2, 5 opere, in cui concentra
e riversa contenuti forti e tesi... l’operazione magica a volte riesce, a volte
riesce meno, ma può vantare sempre una dignità e una bellezza profonda che ai
tempi del web rischia di apparire sempre più inattuale e poco remunerativa.
Mi chiedo se facciano, fabbrichino più cultura le trovate
magari folgoranti, ineccepibili formalmente o formalisticamente, di un
Cattelan, o il lento e probo e improbo lavoro di ruminazione di Simeone sulle
luci e le linee. E’ un lavoro di “riduzione” assoluta, prendere un concetto,
farlo cadere, precipitare, proiettarsi su un piano. Ne verranno fuori delle
luci e delle linee. La domanda ricorda quella che si pose Abbott in Flatlandia,
ed è: come si traspone una struttura temporale di linguaggio in una struttura
spaziale geometrica? Come “cade” un concetto su un piano?
L’indagine è innanzitutto sulla linea – e quindi sulla
connessione, sull’essenza pura, l’invenzione antropica per definizione, quella
linea retta che come sapeva già Bruno non esiste in natura (e solo
approssimativamente nel percorso della luce). La linea che proiettata nelle
strutture della mente si è fatta logos e linguaggio, e dunque quel che è più
proprio dell’uomo, la linea che infine ci permette di far emergere l’immagine
del “congegno nascosto dell’universo”, come dice Giovanni Rossetti nella bella
introduzione, ben supportata dall’incursione critica di Antonelli Scotti, un
altro artista che si muove con rigore in quest’area di indagine.
Simeone fabbrica una sua geometria, una nuova geometria
(provando e riprovando infinite volte le posizioni fino a fissarle nel “posto”
giusto). Le sue figure (la figura come numero sensibile, secondo la definizione
di Bruno), i suoi triangoli e esagoni sghembi, sfalsano la struttura geometrica
tradizionale, ma lasciano emergere, al di sotto del piano euclideo, una
necessità geometrica più profonda. Ogni morfema, ogni icona, deviata o
deragliata dal proprio asse, sembra collocata in un punto arbitrario e casuale
(caduta appunto), ma è in realtà decisa da una percezione nuova. L’esagono di Area
(come il dodecagono scazonte di Armonia) non è un esagono inesatto, ma
l’esagono esatto di un campo percettivo nuovo. E’ la geometria che è
significante. E’ il rapporto nuovo alla realtà che produce l’immagine, non
l’immagine che induce un arbitrario e infondato rapporto alla realtà come nei
formalismi dominanti nel linguaggio estetico contemporaneo (in cui è ormai
decisiva la “trovata”, come nei video per ragazzini che spopolano sul web... si
pensi, fuor di polemica, ai vari Vanessa Beecroft o Jeff Koons).
Ma indagine soprattutto sulla luce, e sul suo
raggrinzimento, la sua complicazione, la sua criptazione. Queste rigorose
composizioni, scomposizioni, analisi, magnificazioni delle tracce di luce non
restituiscono la luce pura di Grossatesta, né quella scintillante, artificiale,
quasi plastica della città, ma una luce smangiata, malferma, a brandelli,
segnata, corrugata, una luce cosale, una luce incompiuta e embrionale,
preistorica come i pittogrammi di Lascaux, una luce fatta di luce che non è
ancora passata nel nostro occhio. E’ la luce di Bruno, la luce degli infiniti
mondi, la luce dell’uomo che sta in una cosa che non sa che cosa è.
In questa breve nota su un autore che è anche un amico, non
vorrei limitarmi a interpretazioni e suggestioni, ma anche sottolineare il
valore culturale, etico e politico delle scelte di Simeone, a partire da quella
di porsi in rapporto con un’opera impegnativa come quella di G. B.
Come è noto, Bruno fu considerato fino all’800 e oltre un
campione del laicismo, eroe del libero pensiero, anticipatore dell’illuminismo
e la modernità e infine vittima del dogmatismo religioso. Una serie di studi
successivi, culminati in un famoso saggio tardo-novecentesco della Yates, ci restituirono il Bruno magico, ermetico e lulliano.
La riflessione contemporanea, a partire da Beckett, fino al pensiero francese, ha
sostanzialmente valorizzato la forza e le suggestioni (suscettibili anche di
feconde interpretazioni psicanalitiche, come quelle intentate dal gruppo del
Piccolo Hans/Cefalopodo) del suo linguaggio, ma spesso con un distacco
formalistico poco congeniale al teorico dell’eroico furore. In realtà
il mescolamento o la compresenza di razionalismo e tematiche magico-religiose, la
sua affiliazione e poi espulsione violenta (prima pluriscomuinicato, poi “abbrugiato vivo” per la sua “maladetta
ostinazione”) da un ordine religioso, l’applicazione di una poderosa forza
logica e raziocinante (si pensi alla sua leggendaria potenza mnemonica) a queste tematiche, ha sempre sconcertato il
lettore di B., e sparigliato la sua interpretazione. Per quanto mi riguarda, e in ciò credo di farmi interprete anche della visione di U. S., io sono sempre stato interessato all’effettualità di un autore, alla possibilità di utilizzare la sua lingua e la sua elaborazione del reale per agire sul mondo presente, alla sua potenzialità etico-politica. Non mi interessa né l’inquadramento e il riconoscimento culturale né la finezza e potenza espressiva di Bruno, quanto mi interessa il complesso di ciò che la sua vicenda linguistica e biologica significa e può significare nella storia degli uomini. In tal senso, assumo anch’io Bruno come nume tutelare di una visione estetica che “impegni” la realtà, ma a partire da un’analisi radicale e che dunque necessariamente ne forzi i limiti. Bruno è un eroe e un martire del linguaggio (della razionalità), ma è il primo eroe che sfonda il linguaggio, che sbatte sui suoi limiti, e sogna di oltrepassarli. A differenza dell’Epicuro lucreziano, e lungo il solco semmai di autori come lo Pseudo-Dionigi, M. Eckhart o Ficino, Bruno, utilizza il logos per passare attraverso il logos, per arrivare al limite e al punto di insignificanza della lingua, dove essa diviene cosale, opaca, illeggibile, e può servire da scongiuro, incantesimo o formula rituale (murmurazione d’incanti). E’ qui in definitiva che è nata la poesia, in questo punto di diramazione di magia e scrittura. In ciò accosto Bruno a Wittgenstein, che attraverso ferree concatenazioni logiche giunge a cospetto di ciò di cui non si può parlare, e si deve dunque tacere, giunge a vedere la realtà come un tutto limitato, e dunque al mistico. Razionalismo che dilaga nel magico. E’ questo stesso ferreo senso della lingua come regola dell’agire che fa di Bruno e di Wittgenstein 2 eroi della coerenza etica, 2 umani che “mantengono” la parola, che la mantengono incollata alla vita, assegnandole un valore sacrale e assoluto.
Ed è anche in tal senso che le parole iconiche di Simeone, baluginanti nello spazio perduto del nero, incerte, malferme, contribuiscono alla costruzione di un’estetica che coincida con un’etica e una politica.
di Ugo Simeone ho scritto brevemente ma con maggior pertinenza anche qui
ugo simeone
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