giovedì 26 giugno 2014

nota su troisi – l’imbarazzo di essere napoletano

imbarazzo: dal portoghese baraço, fune: essere legati, ingombrati. ciò che ci ingombra, ciò che ci imbarazza, è sempre il corpo che ci portiamo dietro. il corpo che pesa, che ostruisce, che suda, il corpo che è visibile e riprovevole, il corpo che un giorno puzzerà, marcirà, sarà un fagotto floscio e inutile  – il corpo che è l’animale che ci portiamo sempre dietro, meccanismo di pulsioni egotiche, di reazioni incontrollabili, di bisogni elementari e primordiali.

tutto il valore di massimo troisi è nella sua finissima capacità di esprimere l’imbarazzo. troisi è il minuzioso cesellatore, l’esatto formulatore somatico dell’imbarazzo, questa è la chiave di tutto il suo lavoro. fra tutte, si pensi alla scena di scusate il ritardo dove conclude  che la bambina è meglio che se la mangia il fratello , o a quella in cui chiede allo stesso i soldi per il regalo alla madre (tutto su youtube).

questo imbarazzo nasce sempre dal conflitto fra l’umanissimo egoismo (accattivarsi lui l’affetto della nipote, partecipare con una quota risibile al regalo alla madre, mettere lui la “sepponta” al padre ugo, essere amato lui dalle varie donne di cui è geloso di volta in volta... ecc. ) e la sua delicatezza, e cioè l’altrettanto umano desiderio di non dispiacere all’altro, o di dargli piacere. da questo conflitto nascono l’aria esitante, le torsioni espressive, le smorfie, i balbettii e carsismi della voce nasale e introvertita, la caratteristica mimica contratta e sincopata (le mani che spesso spezzano il gesto) e d’altra parte le giustificazioni assurde, i paradossi, i giri mentali divagatori e pindarici delle sue gag. quel che ci fa ridere, è la pulsione vitale egotica che inciampa nel sentimento dell’alterità, e sopravvive pur nella sua forma strozzata.


 infine, quello di troisi è l’imbarazzo di essere napoletano (che poi è una delle forme dell'imbarazzo di esistere). napoli è una strana città, magica e primordiale, ricca e miserabile, armoniosa/musicale e caotica. il napoletano ha molto corpo – il che esprimiamo dicendo che è un istintivo. questo è bene, sapersi corpo, non rinnegarsi in una modernità astratta e ideologica. ma è inutile elencare quanto di male ha prodotto in questa città  lo spontaneismo, ovvero la corporeità selvaggia: inciviltà, prevaricazione, disordine, ingiustizia, infine bruttezza.  napoli ormai è una città brutta, goethe la definiva un paradiso abitato da diavoli, oggi è un inferno abitato da diavoli.

 troisi si è trovato ad essere napoletano all’era dell’affacciarsi dell’europeismo civile e un po’ esangue, del politically correct, dell’asettico, del deodorato, della plastica contro i batteri, delle vongole che non sanno di mare perché una direttiva ne vieta l’uso, dei progetti allestiti giusto per consumare i fondi, del progettato contro lo spontaneo e il necessario. napoli, si sa, è una città mezzo africana, troisi è un organismo umano mezzo africano e mezzo europeo, e nessuno più di lui poteva esprimere l’archetipo imbarazzo che nasce dal conflitto fra corpo e psiche, fra egoismo e alterità, fra natura e cultura.

 gli altri 2 più universali interpreti, o come si dice, icone della napoletanità, eduardo de filippo e totò de curtis, vivevano ancora nella giustificazione della napoletanità  (e talvolta, peggio, del napoletanismo), nell’incoscienza dello spontaneismo e della sua presunta “umanità”. totò fa ridere perché inscena la furbizia, l’inventiva e l’arte di farla franca – perché fa vincere il corpo. totò vende disinvoltamente la fontana di trevi all’americano, troisi non riesce a rifilare la sua lozione per i capelli perché ci prova con aria imbarazzata e colpevole – così come la disinvoltura di totò e peppino nella famosa lettera si complica e nevrotizza nella citazione di troisi e benigni (che in questo sketch si mostra attore molto meno convincente dell’altro... benigni è un grande intellettuale, un raffinato affabulatore, un geniale improvvisatore, ma un attore senza vero sangue, costruito con un’enfasi piuttosto fasulla... appunto perché finge un’implausibile libertà assoluta del corpo).

 repertorio ragionato
in ricomincio da 3: troisi che spiega di non essere un emigrante, t. che corre intorno a s.maria del fiore, t. che annusa le scarpe, t. che nel finale si apre alla “modernità”, accettando il figlio di paternità incerta, ma la scambia con la “sepponta”. in particolare la smorfia tipicamente imbarazzata del fermo immagine finale. il sogno della pallottola che si affloscia appena sparata, sintesi del conflitto fra ego e altro,  la consapevolezza che l’ego con la sua stessa presenza costituisce una minaccia, un danno, una sottrazione per l’altro.
scusate il ritardo: vedi sopra; o il dialogo della salsa senza i semi e le pellecchie
le vie del signore sono finite: la malattia psicosomatica di camillo, il corpo bloccato; passim tutti i dialoghi d’amore.
pensavo fosse amore e invece era un calesse: passim tutti i dialoghi di gelosia mascherata, ad es. quello “prendete casa, avete un problema?”
il postino: imbarazzo d’amore con beatrice russo, imbarazzo di reverenza con neruda. il postino è lo spirito semplice e istintivo che finalmente si emancipa e si apre alla cultura, il portatore di un linguaggio e di una lettera, che finalmente apre la lettera.
ricordo che troisi è morto poco dopo aver terminato il film, e a chi gli consigliava di fare prima il trapianto cardiaco, rispondeva che voleva finire le riprese col “suo” cuore. non voleva girarle con la carne di un altro nella propria carne, un altro bionico, evoluto, europeo e in buona salute – così come non si è mai trapiantato in bocca un italiano che non gli apparteneva. la propria morte gli è sembrata più conveniente, o più vera,  che la vita di un altro. forse è stato l’ultimo a pensarla così, e il primo a sapere che non era più una scelta possibile.




NOTA
non per fare classifiche, ma a scanso di'equivoci e per coerenza di giudizio, preciso che troisi non si può dire sia il mio comico preferito - né è sicuramente quello che aveva maggior bisogno di una celebrazione (ma di un'analisi forse sì), proprio perché piace sia alla "massa" che all'intelletuale (scola, ghezzi che lo preferisce addirittura a moretti...). t. è insomma soprattutto un eccellente attore, ma non direi che il suo lavoro abbia un valore conoscitivo, o apra nuove prospettive o visioni della realtà. resta all'interno di moduli un po' scontati, insomma...
sui comici italiani ho scritto qualcosa qui  http://livioborriello.blogspot.it/2012/11/lefficace-nulla-frullato-il-pulsante.html#more   ... ne emerge che il mio preferito è corrado guzzanti. anche su nanni moretti credo che ghezzi prenda un grosso abbaglio... il primo moretti, proprio quello che lui svaluta, è straordinario, e proprio perchè al di là, o prima di "fare cinema", costruisce nuovi rapporti di senso, propone un'altra logica percettiva, altri tempi comici, altra infra-testualità...il tutto detto in sintesi...






di napoli ho scritto anche - fra l'altro - a proposito del bel libro di antonio piediemonte sul cimitero delle fontanelle

Una città segreta nel sottosuolo di Napoli

 Napoli, come è noto, non è solo la città del visibile, la città del sole, del mare, della luce e del chiasso, ma  ha un cuore occulto e segreto, un’altra  città parallela che si estende per centinaia di chilometri nel suo sottosuolo tufaceo, e su cui poggia il 60% del suo territorio.  In questo mondo arcano, suggestivo, a tratti inquietante ci conduce lo smilzo ma denso libretto di Antonio  Piedimonte, giornalista napoletano, forse uno dei suoi maggiori conoscitori.

I legittimi proprietari e abitatori di questa città sono ovviamente i morti, ma non mancano i camorristi latitanti, i posteggiatori, e ovviamente i devoti del culto delle anime del purgatorio, che le frequentano, sembrerebbe, soprattutto per carpire loro vaticinii cabalistici e numeri al lotto. In realtà il mondo descritto da Piedimonte ha la stessa meravigliosa e preoccupante caoticità della Napoli visibile. Vi si trova davvero di tutto: cimiteri e cappelle, statue antiche e dipinti di Luca Giordano, cisterne, fogne e treni, la probabile vera tomba di Leopardi (ossimoricamente situata poco al di sotto della casa natale di Totò) o uno straordinario ammasso che a tutti gli effetti si potrebbe considerare la geniale installazione di un artista contemporaneo: un’enorme colata di cemento in cui sono inglobate centinaia di carcasse di auto, fra cui un carro funebre usato per il contrabbando delle sigarette.

Napoli, ci spiega Piedimonte,  vanta storicamente e genealogicamente un rapporto privilegiato  coi propri inferi, col proprio profondo. “Impastata di luce e di buio, nata e cresciuta intorno ad una tomba, quella della sirena Partenope”, sede della porta degli inferi secondo gli antichi, caratterizzata indissolubilmente nell’immaginario del villaggio globale dall’incombente presenza del Vesuvio. Il suo però è un occulto domestico, confidenziale, con cui intrattenere un tranquillo rapporto di vicinato (fra vicini di mondi, nella fattispecie), almeno per quanto riguarda il suo aspetto superstizioso e popolare. Nella sua forma più profonda, l’occulto di Napoli è semplicemente questo:  un rapporto con le forze primordiali, demoniche, ctonie, col fuoco segreto che alimenta la vita sulla terra. E’ da questo rapporto che probabilmente il napoletano attinge la sua straordinaria vitalità, quando cerca di esorcizzare il suo atavico timore del Vesuvio esplodendo fuochi e botti, o quando canta, perchè gli passi (la paura, la miseria, o l’ultimo governo). 

Anche nel Cimitero della fontanelle, la galleria scavata nel tufo sotto il quartiere della Sanità, i morti non hanno nulla di macabro e perturbante, come accade a quelli di altre città del mistero ( ad esempio Parigi, Praga e Torino, vertici del presunto triangolo della magia bianca,  e S.Francisco, Londra e ancora Torino, che traccerebbero quello della magia nera), anzi si potrebbe dire che in qualche modo non sono nemmeno morti, ma vivi in una condizione fisica assai deperita. Infatti come i vivi hanno dei nomi, Capa rossa,  Fratello Pasquale o ‘o Monacone,  come i vivi parlano, e vaticinano, come i vivi addirittura sudano, e come i vivi hanno bisogno di attenzioni, cure, e continue lucidature. Anche nel rapporto coi morti si manifesta la peculiare fisicità del popolo napoletano.

Il libro si districa abilmente in questa allucinazione materializzata, in questa fantasticheria dantesca a portata di ascensore e, una notizia a riga, lo descrive con dovizia, rigore antropologico e insieme sensibilità al mistero. E’ un libro che con mezzi documentari e realistici finisce per sortire un effetto fantastico e sovrannaturale, ma questo forse è un merito più della città che dell’autore, una città così irreale che le riesce difficile farsi descrivere plausibilmente,  razionalmente. Non mancano peraltro gli aneddoti gustosi, come quello dello speleologo scambiato per un morto a cui i napoletani di sopra richiedono qualche numero al lotto, e notizie succose per l’irpino, come quelle sul culto di S. Pantaleone, protettore e intercessore ancora del lotto, venerato nel Santuario di  Montoro.

Il culto dei purganti  fu vietato nel 1969 dal cardinale Ursi, perchè “arbitrario, superstizioso e pertanto inammissibile”. Ma ovviamente le devote napoletano continuano a praticarlo, e ad accudire le pezzentelle e le altre anime bisognose di essere refrescate da una preghiera. Come dar loro torto, d’altra parte? Il Cimitero delle fontanelle resta così ancora frequentato, ma la gran parte della sterminata città sotterranea è ancora inaccessibile al pubblico. Ciò rappresenta sicuramente uno spreco di risorse, perchè essa può costituire un prezioso patrimonio di rilevante interesse non solo culturale ma anche turistico, che oltretutto  abbonda di quel prezioso, impalpabile e rigenerante materiale che è ahimé così difficile rintracciare nella città di sopra, il silenzio.

Antonio Piedimonte
Il cimitero delle fontanelle
il culto delle anime del purgatorio e il sottosuolo di napoli
Electa Napoli, euro 8,00

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