“Fotosintesi”,
un’opera preziosa, rigorosa, avventurosa di Aniello Barone, a cui ho
contribuito con un mio testo (insieme a Antonello Frongia, Davide Racca, Mauro
Zanchi e ad Antonello Scotti per l’ideazione grafica). Si tratta di 75 immagini
in sequenza di una roccia ripresa sull’isola di Ventotene, che ne raccontano la
natura e la luce. Ovviamente la mia foto rende poco, l’opera consiste
nell’intero volume, anzi per sottolinearlo nel volume non compare né il nome
dell’autore, né i testi, acclusi in una tasca della copertina. Questo il mio contributo:
recitare immagini
non c’è forse modo migliore di descrivere il cosmo, di farci accorgere del cosmo,
che riportare minutamente la storia di una sua porzione minerale durante 4 ore terrestri. durante queste 4 ore, quel che accade sono la roccia, le luci, il tempo, gli astri. c’è uno sguardo, un’entità biologica (socialmente riconosciuta con il contrassegno aniello barone), dall’altra parte del vetro della fotocamera, c’è il riquadro della pellicola che include/ esclude, c’è l’insignificante, consistente e indifferente roccia tufacea di un posto (umanamente detto ventotene) che è rappresentato attraverso la luce.tutto ciò configura una fotografia, 75 fotografie. foteinografeistai, è forse il più antico
uso attestato del termine, nei 40
capitoli sulla custodia della mente di filoteo il sinaita, anacoreta del IX
secolo. filoteo si riferiva all’iscriversi della luce divina nella mente
dell’uomo, durante la preghiera, al fenomeno di questo rapporto fra il tutto e
il minimo specchio che lo riflette. in questo modo vanno probabilmente seguite
queste fotografie che sono fotografie nel senso più originario. non si tratta
di una sequenza concettuale, non è sufficiente valutare a colpo d’occhio
l’insieme per cogliere il concetto della temporalità, così come ovviamente non
si tratta di una semplice documentazione delle metamorfosi della luce e
dell’ombra su una falesia stratificata, la sequenza va ribattuta, va sgranata –
recitata come un ritmo iconico e luminoso.
foglio dopo foglio, e per questo siamo vicini alla preghiera del nome dei padri del deserto, al ribattere delle note nella musica minimale
di cage, mertens o eno, al camminare e
al peregrinare, all’ipnosi, alla ninna-nanna, al rito sciamanico che produce l’estasi
e l’accesso al sacro.
la
sequenza peraltro non è lineare, la successione si accavalla, il tempo si
rimescola, così come lo sguardo e la mente scompaginano la memoria e la
percezione nei tessuti nervosi che corrispondono alla porzione di roccia. dal
tempo astronomico si accede a un’altra dimensione temporale, o a una dimensione
atemporale, dove le ombre e le luci si sviluppano secondo una logica
sincronica, o interiore, o corporea. il mondo viene reinterpretato, si
struttura in una nuova forma, semplicemente attraverso la manipolazione del
tempo ordinario e condiviso, attraverso la loro disposizione. è un processo che potrebbe ricordare la
metonimia del montaggio fotografico, ma che in questo caso ha un senso diverso,
perché non si limita ad agire sulla diegesi narrativa, ma opera sul tempo in
sé. non si tratta di riorganizzare la successione temporale per farla
corrispondere alla percezione, all’interpretazione o alla memoria del soggetto,
ma di isolare le strutture temporali stesse, di utilizzare le unità temporali
come un nuovo alfabeto, e nello stesso tempo di esporre questo alfabeto. sfogliando le pagine l’ombra della roccia si contorce, si scuote,
si rattrappisce, l’immagine che abbiamo sotto gli occhi è sempre la stessa ma
non è mai se stessa, la larga macchia, estesa e coprente, della prima riproduzione cambia di densità e contorni,
emette pseudopodi e filamenti, li ritrae, pulsa e sbanda, torna a spandersi,
infine si trasfigura e raccoglie in uno yod, la prima lettera del nome, il
segno cabalistico primario. la realtà è riprodotta sul bilico della sua
incessante trasformazione, della sua instabilità, da che era medesima (a) diventa
altra (b).
l’ombra dunque è animata, è viva, colonizza la roccia come una
muffa semiotica, apre le fauci, a un certo punto richiama un volto, poi un topo
con le orecchie appuntite, un rinoceronte, uno scorpione. ma noi sappiamo che
il suo moto è meccanico, perché è cosmico, è irradiazione e emanazione delle
sfere, è l’ultimo momento di quell’ingranaggio
cosmico, di quell’unica catena di trasmissione fatta di quanti, treni motorii,
energie che ha origine all’infinito e si degrada all’infinito, di cui scriveva nikola
tesla, o che si ritrova nella concezione di giordano bruno del cosmo come un
immane animale animato, o di swedenborg che lo allucinava come un uomo
grandisssimo, o andando a ritroso in dante o in lucrezio. guardando, sappiamo
dunque anche che la vita non è che una rara varietà del morto e dell’inanimato,
che non esiste vera discontinuità fra l’organico e l’inorganico. sappiamo
animisticamente e panteisticamente che il dio è dappertutto.
in questo senso quel che accade non è tanto lo sviluppo
dell’ombra, lo spostamento del sole, la vicenda delle luci e il susseguirsi del
tempo, ma il persistere della roccia nella varietà delle sue manifestazioni. non
è una cronografia ma un’ontografia. come in ogni fotografia, quel che accade è
l’immobilità. quel che accade è il mondo nella sua mineralità, nei suoi
elementi costitutivi e nudi. ed è appunto nella sospensione dell’atto, nella
destituzione del biologico e dell’organico, che si rivela il sacro, il divino,
il numinoso. una fotografia come queste, potrebbe essere stata scattata in
qualunque punto del cosmo, sulla luna o su un astro remoto, irraggiungibile, inconoscibile e impensabile. dovunque
qualcosa è, c’è una roccia, una luce che nel momento in cui la rende
percettibile ne produce l’esistenza, dei contorni e una successione temporale,
e cioè i contenuti di questa sequenza di fotografie. ed è questa universalità,
questa cosmicità, che la ascrive all’indifferenziato, al continuo, e perciò
alla sfera del sacro.
“perché continuiamo a fare fotografie in b/n? qual'è il significato
verosimile della produzione delle immagini con queste caratteristiche per il
sapiens? “ si chiedeva di recente in un post su facebook un parlante che sarebbe
potuto essere, e probabilmente era aniello barone. una risposta potrebbe essere
questa: nel bianco e nero scade l’antropico e ci si approssima a una sorta di
visione numerica e ontologica della realtà. si manifesta il ritmo costitutivo
delle cose, la marca positivo/negativo. il b/n astrae e dunque universalizza. è ascetico, lunare, siderale, agisce in vista
dell’uomo fuori da sé, dell’anti-uomo di cui parla valere novarina. non riproduce
la realtà, la delimita, la afferra, la computa. anche: la retrocede. la riporta
all’essenza. un insetto, un cane, pare che veda in b/n. se dio avesse occhi, e
prima ancora una psiche, in che colori vedrebbe il creato? solo il bianco, ci
verrebbe da pensare, o solo il nero. bianco e nero non sono colori, sono la
forma dei colori.
gran parte del lavoro del fotografo, del fotografante, si è svolto
intorno alla dialettica esclusione/inclusione, e quindi intorno al concetto di
intrusione e di corpo estraneo, e corrispondentemente di isolamento: indagini
sui rifiuti, sui rom, sui riti africani, sui mercati periferici. e anche qui,
la ricerca ha per oggetto il riquadro di un’isola, di un minuscolo resto che è
incluso e escluso dal corpo geografico e politico di cui fa parte. ventotene,
come ogni isola, è un’intrusa, con la sua geologia africana, con la sua
atipicità anti-turistica. nello stesso tempo, l’isola è a sua volta esclusa dal
riquadro, ne vediamo solo un pezzetto insignificante, che potrebbe essere
quello del pianeta di una galassia remota, di una rocca sinaitica, e potrebbe
anche somigliare alla foto submicroscopica di un tessuto biologico: è materia
indifferenziata che ha fatto pressione lungo i bordi del riquadro e si è
introdotta nel suo spazio . così la foteinografeistai
diventa il segno di un rapporto fra microcosmo e macrocosmo, fra l’antropico e
il divino, fra il politico e lo psichico, diventa constatazione di qualcosa che
è, e appura il mondo.
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