in foto la copertina di IRA, di iosonouncane
Il personaggio pubblico Franco Arminio corrisponde poco all’entità
psico-fisica Franco Arminio. Resta da capire quanto a quest’ultima corrisponda il
poeta Arminio.
Arminio è pervenuto negli ultimi anni a un tipo di scrittura la cui linearità rasenta l’elementarità, a cui la poesia colta e consapevole non si era in pratica mai spinta. Questa scelta offre l’occasione di porsi delle domande radicali sull’essenza della poesia. A me e a molti lettori avveduti sembra infatti che le frasi di Arminio sono sì molto spesso elementari, ma che fra una frase elementare di Arminio e una frase elementare di un non poeta c’è una differenza in cui consiste esattamente la poesia. Questa differenza non è facilmente misurabile (è ontica e non ontologica). E’ la differenza fra il mondo unico e irripetibile percepito dal corpo di Arminio e il mondo unico e irripetibile percepito dal corpo del non poeta. Ciò che si può dire è che il mondo-arminio è afferrato con un’apprensione autentica,
perché puramente soggettiva, e quello del non-poeta con un'apprensione inautentica, perché condivisa, congetturale e oggettuale, come la quarta faccia del cubo.
In altre parole, l’esercizio della poesia presuppone che l’unica visione
solida e indubitabile del mondo sia quella locale e non quella globale. La
poesia riproduce il mondo dal punto di vista singolare e irripetibile che è il
nostro corpo. Ma questo mondo soggettivo e somatocentrico è l’unico
sensorialmente e concretamente percepibile, e dunque l’unico che si manifesta
nella sua dimensione incomprensibile, incommensurabile, sacrale.
L’emozione che proviamo di fronte a una poesia riuscita, è quella di trovarci
al cospetto delle cose stesse, al loro
impossibile e flagrante prodursi nel nostro orizzonte percettivo. La
scienza e le scritture referenziali e letterarie invece ci descrivono il mondo
condiviso, convenzionale, parametrabile .
Si potrebbe dire che la poesia è una scienza situata in un corpo. Il
compito del poeta è dunque quello di ritagliare, di sagomare un idioma, un linguaggio
personale, sul suo corpo unico. E’ esattamente questo che fa Arminio quando
scrive della “clemenza dello sguardo”, dei “ragazzi del prodigio” , dei
“paesaggi inoperosi” o dei paesi in cui aleggia “il silenzio di chi se ne è
andato e il silenzio di chi resta”.
La poesia consiste dunque in una fedeltà
della lingua al corpo, in una loro corrispondenza o aderenza. Più
radicalmente, se la lingua non è che un’estensione filamentosa, fonica o
grafica, del nostro corpo, è una postura, un disporsi del corpo.
Ma allora un corpo vale l’altro, una posizione vale l’altra, e dunque una
poesia vale l’altra? Nel momento in cui infatti una poesia è riuscita, e il
corpo si è fatto lingua o viceversa, ne vale un’altra, per cui non è possibile
stabilire se sia migliore una poesia risolta di Ungaretti o una di Montale. Quel
che bisogna considerare in un giudizio critico è invece una specie di capacità
di trasfusione, di imbibizione, o di possessione, o di magnetismo. E’
misurabile questa conducibilità? Fortunatamente o sfortunatamente, per ora solo
col piacere estetico. Il corpo resta inaccessibile e opaco, e il giudizio
critico spesso non trova appigli su cui fare presa per valutare questa
proprietà. Resta la possibilità di una rilevazione statistica, del
“consensus sapientorum”. Dobbiamo allora ammettere che fruitori competenti come
Celati, Magrelli, Belpoliti, Trevi, Saviano, W. Siti ecc hanno
percepito questa correlazione anche nell’Arminio più “facile”.
La poesia dunque non si definisce misurando il grado di complessità e
densità semantica, l’efficienza informativa, la probabilità metaforica, o
utilizzando soltanto parametri analitici e quantitativi. Non è, come ritiene
certa critica tecnopatica, e infine agonistica e fallocratica, un esercizio di destrezza linguistica, una
performance di atletica neurale o bio-chimica, una produzione intensiva. Quando diciamo che il canto di
Ulisse e A Silvia sono poesia, non stiamo facendo un’analisi quantitativa.
Leopardi, Saba, Penna usano un lessico basico, una grammatica economica e una
sintassi che cerca di aderire nella maniera meno sforzata alle strutture
concettuali, ma li diciamo poeti quanto o magari più di Zanzotto, Sanguineti e
Novarina. A questa linea che si potrebbe dire dell’economia o del nitore espressivo,
potremmo ascrivere anche molta poesia contemporanea, a cominciare da Magrelli, in
cui la complessità si risolve in linea pura, fino a Mariangela Gualtieri, Livia
Candriani o per alcuni aspetti Laura Pugno, per fare solo alcuni esempi.
Ancora meno fondata è forse quella critica che pare condannare la
comprensibilità in sé, come se questa comportasse automaticamente un
degrado qualitativo e una resa etico-politica. Volendo, anzi, quello di Arminio
potrebbe essere considerato un tentativo di rompere quel patto che secondo
Ranciere sorregge la letteratura borghese: il letterato fa di tutto per “non
dire niente”, salvaguarda la propria identità rendendosi incomprensibile, e il
borghese ringrazia, perché non ha detto nulla, il che gli permette di
perseguire indisturbato i propri interessi. Arminio è invece perfettamente
comprensibile, anche se resta poi da stabilire fino a che punto quel che resta
compreso disturbi il borghese.
Si potrebbe anzi dire che, ponendo in rapporto diretto il corpo e la
lingua, la poesia dell’ultimo Arminio, quando è tale, risulta totalmente
depurata del cosiddetto poetese, cioè di quella maniera della poesia, che è
probabilmente ciò che ne ha allontanato il pubblico, sia nelle sue declinazioni
ingenue, il tipico poetese della domenica di chi verseggia con certe parole
ritenute “poetiche” (i grappoli di stelle
che diluiscono grumi in schizzi cangianti)
, sia in quelle per così dire espressioniste, che fanno riferimento a una
presunta “tensione” (es., il pur notevole Dario Villa quando scrive: bestie stratificate urgono sotto), che
infine in quelle colte e sofisticate di molti epigoni delle avanguardie
storiche, per i quali una produzione macchinale e casuale di parole avrebbe
valore poetico perché andrebbe a corrispondere in definitiva al caos del mondo
(es. il pur valido Tommaso Ottonieri quando scrive geomanti chini al giro di una sabbia) .Tutti questi poetesi si
caratterizzano per il fatto di poter essere riprodotti alla fine da chiunque,
una volta appreso il codice e metabolizzata la formula, e cioè sono quindi
fondamentalmente concettuali. Un discorso diverso vale per quella poesia dichiaratamente manieristica, da Pasolini a Patrizia Valduga, che evita la convenzionalità
proprio “citando” il codice lirico prescelto.
La scelta di Arminio comporta naturalmente alcuni rischi. Come diceva Saba,
quando viene meno l’aderenza lingua-corpo, non resta nessuna letteratura a
sorreggere il testo, e affiora il banale puro. E’ un rischio da cui Arminio si
dovrebbe proteggere con una maggiore selettività. Altro rischio, più grave, è
quello che l’ipertrofia egotica e narcissica del personaggio pubblico fagociti il poeta (insomma il rischio che diventi un gaddiano "poeta-tacchino"), sia
inducendolo ad assecondare pedissequamente l’aspettativa del pubblico, sia incrinando
quel senso di intima responsabilità, di affidabilità etica, di contegnosa impersonalità
che è forse il vero controvalore della poesia.
Merleau Ponty definiva l’immaginario come il sottile strato di impensato
fra il pensiero e ciò che esso pensa. Se amiamo davvero la poesia, dobbiamo
essere molto cauti nel muoverci in questo spazio, dobbiamo essere coscienti che
guadagnarlo al pensiero, trasformandolo in pensato, potrebbe vaporizzarlo,
abolirlo.
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