venerdì 11 febbraio 2022

La poesia è fedeltà della lingua al corpo


                                                 in foto la copertina di IRA, di iosonouncane

Il personaggio pubblico Franco Arminio corrisponde poco all’entità psico-fisica Franco Arminio. Resta da capire quanto a quest’ultima corrisponda il poeta Arminio.

Arminio è pervenuto negli ultimi anni a un tipo di scrittura la cui linearità rasenta l’elementarità, a cui la poesia colta e consapevole non si era in pratica mai spinta. Questa scelta offre l’occasione di porsi delle domande radicali sull’essenza della poesia. A me e a molti lettori avveduti sembra infatti che le frasi di Arminio sono sì molto spesso elementari, ma che fra una frase elementare di Arminio e una frase elementare di un non poeta c’è una differenza in cui consiste esattamente la poesia. Questa differenza non è facilmente misurabile (è ontica e non ontologica). E’ la differenza fra il mondo unico e irripetibile percepito dal corpo di Arminio e il mondo unico e irripetibile percepito dal corpo del non poeta. Ciò che si può dire è che il mondo-arminio è afferrato con un’apprensione autentica,

perché puramente soggettiva, e quello del non-poeta con un'apprensione inautentica, perché condivisa, congetturale e oggettuale, come la quarta faccia del cubo. 

In altre parole, l’esercizio della poesia presuppone che l’unica visione solida e indubitabile del mondo sia quella locale e non quella globale. La poesia riproduce il mondo dal punto di vista singolare e irripetibile che è il nostro corpo. Ma questo mondo soggettivo e somatocentrico è l’unico sensorialmente e concretamente percepibile, e dunque l’unico che si manifesta nella sua dimensione incomprensibile, incommensurabile, sacrale. L’emozione che proviamo di fronte a una poesia riuscita, è quella di trovarci al cospetto delle cose stesse, al loro impossibile e flagrante prodursi nel nostro orizzonte percettivo. La scienza e le scritture referenziali e letterarie invece ci descrivono il mondo condiviso, convenzionale, parametrabile . Si potrebbe dire che la poesia è una scienza situata in un corpo.  Il compito del poeta è dunque quello di ritagliare, di sagomare un idioma, un linguaggio personale, sul suo corpo unico. E’ esattamente questo che fa Arminio quando scrive della “clemenza dello sguardo”, dei “ragazzi del prodigio” , dei “paesaggi inoperosi” o dei paesi in cui aleggia “il silenzio di chi se ne è andato e il silenzio di chi resta”.  

La poesia consiste dunque in una fedeltà della lingua al corpo, in una loro corrispondenza o aderenza. Più radicalmente, se la lingua non è che un’estensione filamentosa, fonica o grafica, del nostro corpo, è una postura, un disporsi del corpo.

Ma allora un corpo vale l’altro, una posizione vale l’altra, e dunque una poesia vale l’altra? Nel momento in cui infatti una poesia è riuscita, e il corpo si è fatto lingua o viceversa, ne vale un’altra, per cui non è possibile stabilire se sia migliore una poesia risolta di Ungaretti o una di Montale. Quel che bisogna considerare in un giudizio critico è invece una specie di capacità di trasfusione, di imbibizione, o di possessione, o di magnetismo. E’ misurabile questa conducibilità? Fortunatamente o sfortunatamente, per ora solo col piacere estetico. Il corpo resta inaccessibile e opaco, e il giudizio critico spesso non trova appigli su cui fare presa per valutare questa proprietà.  Resta la possibilità di una rilevazione statistica, del “consensus sapientorum”. Dobbiamo allora ammettere che fruitori competenti come Celati, Magrelli, Belpoliti, Trevi, Saviano, W. Siti ecc hanno percepito questa correlazione anche nell’Arminio più “facile”.

La poesia dunque non si definisce misurando il grado di complessità e densità semantica, l’efficienza informativa, la probabilità metaforica, o utilizzando soltanto parametri analitici e quantitativi. Non è, come ritiene certa critica tecnopatica, e infine agonistica e fallocratica, un esercizio di destrezza linguistica, una performance di atletica neurale o bio-chimica, una produzione intensiva. Quando diciamo che il canto di Ulisse e A Silvia sono poesia, non stiamo facendo un’analisi quantitativa. Leopardi, Saba, Penna usano un lessico basico, una grammatica economica e una sintassi che cerca di aderire nella maniera meno sforzata alle strutture concettuali, ma li diciamo poeti quanto o magari più di Zanzotto, Sanguineti e Novarina. A questa linea che si potrebbe dire dell’economia o del nitore espressivo, potremmo ascrivere anche molta poesia contemporanea, a cominciare da Magrelli, in cui la complessità si risolve in linea pura, fino a Mariangela Gualtieri, Livia Candriani o per alcuni aspetti Laura Pugno, per fare solo alcuni esempi.    

Ancora meno fondata è forse quella critica che pare condannare la comprensibilità in sé, come se questa comportasse automaticamente  un degrado qualitativo e una resa etico-politica. Volendo, anzi, quello di Arminio potrebbe essere considerato un tentativo di rompere quel patto che secondo Ranciere sorregge la letteratura borghese: il letterato fa di tutto per “non dire niente”, salvaguarda la propria identità rendendosi incomprensibile, e il borghese ringrazia, perché non ha detto nulla, il che gli permette di perseguire indisturbato i propri interessi. Arminio è invece perfettamente comprensibile, anche se resta poi da stabilire fino a che punto quel che resta compreso disturbi il borghese.

Si potrebbe anzi dire che, ponendo in rapporto diretto il corpo e la lingua, la poesia dell’ultimo Arminio, quando è tale, risulta totalmente depurata del cosiddetto poetese, cioè di quella maniera della poesia, che è probabilmente ciò che ne ha allontanato il pubblico, sia nelle sue declinazioni ingenue, il tipico poetese della domenica di chi verseggia con certe parole ritenute “poetiche” (i grappoli di stelle che diluiscono grumi in schizzi cangianti) , sia in quelle per così dire espressioniste, che fanno riferimento a una presunta “tensione” (es., il pur notevole Dario Villa quando scrive: bestie stratificate urgono sotto), che infine in quelle colte e sofisticate di molti epigoni delle avanguardie storiche, per i quali una produzione macchinale e casuale di parole avrebbe valore poetico perché andrebbe a corrispondere in definitiva al caos del mondo (es. il pur valido Tommaso Ottonieri quando scrive geomanti chini al giro di una sabbia) .Tutti questi poetesi si caratterizzano per il fatto di poter essere riprodotti alla fine da chiunque, una volta appreso il codice e metabolizzata la formula, e cioè sono quindi fondamentalmente concettuali. Un discorso diverso vale per quella poesia dichiaratamente manieristica, da Pasolini a Patrizia Valduga, che evita la convenzionalità proprio “citando” il codice lirico prescelto.

La scelta di Arminio comporta naturalmente alcuni rischi. Come diceva Saba, quando viene meno l’aderenza lingua-corpo, non resta nessuna letteratura a sorreggere il testo, e affiora il banale puro. E’ un rischio da cui Arminio si dovrebbe proteggere con una maggiore selettività. Altro rischio, più grave, è quello che l’ipertrofia egotica e narcissica del personaggio pubblico fagociti il poeta (insomma il rischio che diventi un gaddiano "poeta-tacchino"), sia inducendolo ad assecondare pedissequamente l’aspettativa del pubblico, sia incrinando quel senso di intima responsabilità, di affidabilità etica, di contegnosa impersonalità che è forse il vero controvalore della poesia.

Merleau Ponty definiva l’immaginario come il sottile strato di impensato fra il pensiero e ciò che esso pensa. Se amiamo davvero la poesia, dobbiamo essere molto cauti nel muoverci in questo spazio, dobbiamo essere coscienti che guadagnarlo al pensiero, trasformandolo in pensato, potrebbe vaporizzarlo, abolirlo. 

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