un'alice legge Aristotele
Negli ultimi anni abbiamo constatato una riduzione dei contenuti logici, etici, sentimentali nell’opera d’arte, e della sua stessa struttura formale. Nel terzo millennio si avvia a diventare un’operazione di impasto del segno, una contraffazione elettro-chimica del segno. Il geniale Baby shark, una elettro-filastrocca anglo-nipponica per bambini che ha il record di visualizzazioni su youtube (8 miliardi) non ha sintassi, non ha trama, non ha sviluppo melodico. Consiste nell’enumerazione asindetica della famiglia dei cartoon-squali, con la coda di una lunga onomatopea (dododo ecc.) e musicalmente di n. 3 note (do-re-fa) basiche, col fa ripetuto 10 volte, che infigge emotivamente la sequenza nella memoria. Dunque, nulla. Da dove deriva la forza dell’opera? Da un insieme di invenzioni, incastri e chimismi di audio engineering,
“idee” gestuali, timbriche, sonore, grafiche. E anche, in fondo, da un’intuizione ritmica geniale, quella serrata ripetizione del “du” che evidentemente estrae dal corpo una risonanza fondamentale, ne suscita energie profonde, ne attiva meccanismi. Sarebbe interessante una ricerca storica su questa combinazione fonetica, che spazi dai significati che assume nel linguaggio infantile (lallazioni in dentale, l’inglese daddy ecc,) a quelli dello scat di Louis Armstrong, dai balbali sumeri a Inanna (dur-ra-gu-dug-ga-gu) al pop anni ‘60, passando per la nota canzoncina pubblicitaria du-du-du-du-dufur.In altri termini, anche in questa canzoncina per bambini,
dobbiamo cercare un contenuto eteronomo che la sostanzia e giustifica.
In sostanza Jak e Sciak rappresentano l’insensato e
l’ontologico dell’età della Gloria e di quella del Successo, dell’era in cui si
suonavano le campane per Dio e di quella in cui si mixano jingle per il Mercato.
Ma torniamo alla domanda iniziale. Perché Jak e Shak piacciono? E anzi cos’è il piacere?
Il senso – che coincide con l’uso – il valore e la funzione estetiche, il contenuto del jingle non è posto nella struttura formale, né nel video che ne riproduce l’esecuzione, ma nel corpo dei bambini e degli adulti che lo fruiscono, nel loro vissuto psichico. Facciamo un esempio: una freccia su un cartello è segnale di una determinata direzione. Il significato del cartello è quello costante compreso da tutti gli aggregati di carne competenti, e che non varia: pressappoco, significa obbligo o opportunità di orientare gli atti motori nella direzione del segno. Ma il contenuto profondo, la ragione profonda che dà un senso a quel segno e lo rende utilizzabile e necessario, varia di volta in volta: è una pista nel deserto se siamo a Nouakchott, un bagno smaltato e ben igienizzato se siamo nel corridoio di un albergo di lusso, lo spostamento del cursore se è sulla tastiera. Il segno estetico, in particolare, è sempre deittico, come le parole qui, ieri, io. La comunicazione non è uno scambio di informazioni, ma di intenzioni, volizioni, rapporti fra i corpi, di suoi assetti in definitiva.
7 miliardi di bambini non esistono, ed è evidente che
l’opera ha attratto anche gli adulti. Si può parlare anche di un processo di
bambinizzazione dell’arte. Ma è stata mai anziana l’arte?
L’attività sensoriale e intellettiva è sempre più pilotata, indirizzata
(viene in mente il tema di Supermario bros), l’ego è delegato, lo psichismo
macchinizzato, il piacere automatizzato, la follia incamiciata dalla
contenzione elettrica. Ma qualcosa di simile è accaduto anche nello sviluppo
dall’erma scheggiata con la selce alla politura della statua rinascimentale.
Probabilmente il piacere estetico più profondo consiste nel
riconoscimento della flagranza, nel non accadere, nell’ex-sistere puro.
L’iterazione, l’ostensione, l’agnizione del mondo in quanto mondo, anzi del
segno in quanto segno. I paesaggi pittorici del Barry Lindon di Kubrick,
l’ineffabile del XXXIII canto del Paradiso, il wittgenstainiano non dire quel
che non si può dire non sono tanto lontani da Jak e Shak. Il problema è che gli
utenti non lo sanno.
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