Tutto dunque è terra, tutto viene dalla natura. La natura
con le sue albe ed i suoi tramonti, con le sue nuvole ed i suoi temporali, il
mare con la sua calma e le sue tempeste, i suoi fiumi, i suoi monti limpidi e
innevati ed i suoi deserti, le sue colline con i suoi musei dell’aria, le sue
foreste, in questa terra benedetta, ma offesa, devastata, umiliata. Ah quei
pigmei che fanno parte della foresta, sono posseduti dalla foresta, hanno la
foresta nel loro sangue, come sono più autentici di noi, che solo a volte,
inseguendo un ricordo antico, cerchiamo di tornare, in vita o in morte,
alla terra dove sono le nostre radici, o di ritornare a una vita più naturale.
Forse esiste anche un gene dell’umiltà, o collegato all’umiltà, da humus,
terra, e i pigmei lo hanno riattivato, ne hanno fatto il gene dominante nella
loro vita. Questo gene l’homo sapiens sapiens lo spense, anche se milioni di
Francesco d’Assisi lo riaccendono ogni giorno, da millenni. D’altronde cosa
sono 200.000 anni di storia di fronte ai miliardi di anni che ha impiegato la
natura per creare questo corpo umano così complesso, questo capolavoro, questo
stupore della natura sempre più perfetto, nonostante la sua brama di potere.
Cogli il positivo, anche con tutte le sue contraddizioni, diceva Croce, dunque
non possiamo non ammirare l’uomo, questo uomo che con le sue curiosità e
necessità è riuscito a volare, ad andare sulla luna, a creare computer, che
ogni giorno con le sue ricerche, la sua cultura, la sua scienza, la sua
tecnologia riesce a migliorarsi, e riuscirà un giorno anche a superare i suoi
egoismi e la sua brama di potere. Così come sarà capace, forse fra altri 200.000 anni, di
risolvere l’eterno quesito: chi fummo e come fummo, chi siamo e come siamo, chi
saremo e come saremo. Aiutiamo allora il buon dio, ancora chiuso nel suo
laboratorio, dove ancora studia come riparare il grave disastro causato da quei
monellacci di angioletti, e ridiamo un sorriso anche a quegli angioletti ancora
mesti per il senso di colpa, condannati ad osannare e pregare ogni giorno il
loro dio, in un paradiso statico ed eguale. E diamo un sorriso a tutti i
bambini ammalati o affamati...
Non dimenticherò mai l’incontro che ebbi con un bambino in
un orfanatrofio di Calcutta. Ero andato a visitare il centro di Madre Teresa.
In uno stanzone freddo e buio, pieno di lettini, che sembrava vuoto, vidi una
sagoma su un lettino, sotto una coperta. Alzai la coperta. C’era un bambino
raggomitolato, con un viso triste e sofferente. Mi misi a giocare con lui, alzando ed abbassando la
coperta... cucù...tethé... cucù...tethé... Il bambino all’inizio mi guardò con
diffidenza... poi capì il gioco, e mi fece un sorriso luminoso... alla fine non
voleva più smettere di giocare. Il sorriso di un bambino misto di dolcezza, ingenuità e curiosità, è l’unica cosa che potrebbe far divenire questo mondo un paradiso terrestre vivo ed operante, un mondo in cui i bambini possano chiamare padre e madre tutte le persone della generazione dei loro genitori, nonni quelli della generazione precedente, fratelli e sorelle tutti quelli della loro età e magari danzare. Le donne ed i bambini pigmei non camminano, ma danzano, danzano e gioiscono, come io gioisco al ricordo del sorriso di quel bambino, in uno stanzone oscuro e freddo di Calcutta, che giocava con me alzando e abbassando la coperta .... cucù...tethé... cucù...tethé...
Uscendo dall’orfanatrofio, mi trovai di nuovo circondato dalle madri in lacrime. Provai un senso di impotenza e di colpa, mi sentii anch’io colpevole di quei volti senza viso, senza nome, senza futuro in un mondo dominato dalla ricchezza e dal potere.
E tuttavia, per un istante ero riuscito a fare una piccolissima cosa, a far sorridere quel bambino, e questo mi faceva pensare che ancora si può sperare in un mondo migliore.
(edizioni Delta 3 - 2012)
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