per la terza volta in
senegal. nel pezzo riciclo (senegalescamente?) alcuni scritti precedenti
il senegal non produce niente: connette, scambia, ricicla
è un niente che produce niente e scambia niente. terra
sabbiosa sotto il sole, è vivo solo lungo la striscia che lo congiunge al mare.
è un paese-battigia.
è una spuma, l’inflazione prodotta dall’agitazione, dall’impatto
di una terra secca con la pervasività vitale, che tutto connette e scambia,
dell’acqua. dal mare viene il pesce, dal mare viene la merce, sul mare si fa il
turismo, dal mare viene l’umidità notturna e l’acqua dei pozzi costieri che fa
sopravvivere le poche grame piante
colpe e meriti dei senegalesi. sono sostanzialmente buoni,
sociali, solidali. in occidente e altrove si è sviluppata una certa tipologia
di uomo-predatore, che qui probabilmente è filtrata già somaticamente....
quella linea di mutazioni che ha prodotto il volto rapace di aguirre, qui si è strozzata
negli occhi malinconici e nei corpi armoniosi e forti..
aguirre, furore di dio.... la furia del dio di pelle
bianca... furia di sterminio, di possesso, di sopraffazione... un paese che era
già nulla, che era solo corpi, con lo schiavismo fu depredato anche di
quelli...
le colpe: sono restati animali, non astraggono, hanno
un’intelligenza transattiva (maometto era commerciante), ma sono irretiti da
superstizioni e ignoranza. non escono da sé, non escono dal corpo.
sulla spiaggia povere donne affumicano l’hareng, il pesce, con la plastica bruciata, il porto dei pescatori di mbour è tutto un immondezzaio. sulla strada di joal ci ferma la polizia: il tassista si fruga nelle tasche, immagino che cerchi i documenti, invece tira fuori direttamente l’argent, il denaro. ripartiamo dopo pochi istanti di contrattazione
in occidente nei rapporti con l’altro prevale l’aspetto
competitivo – la contrapposizione. mi individuo, mi distinguo, mi contrappongo
anche nel chiedere e ricevere un’informazione, e questo lo manifesto anche solo
con un gesto o tono di voce. qui hanno capito che la parola è solo circolazione
interna di invisibile in un grande organismo collettivo
in senegal prevale certo una strategia di sopravvivenza
solidale e gregaria. ma esiste poi davvero l’uomo buono, o semplicemente la
sopraffazione qui ha assunto forme più attenuate e indirette? successo, denaro,
rango, prestigio contano quanto in occidente... i marabutti, i politici, i
militari, i calciatori (in liberia weah è diventato addirittura presidente) e i
cantanti (il mito nazionale youssu ‘ndour) di successo... gerarchie più ingenue e meno
verticistiche... la criminalità comune
si riduce a furti e truffe, la sopraffazione non è mai violenta
i guineiani sono ancora più neri, ancora più disgraziati e
ancora più sfruttati dei senegalesi, e fanno i lavori più umili e faticosi per
pochi CFA
il volto del bianco è la prima pagina bianca, dove si può
scrivere in bella e chiara grafia l’interiorità, l’invisibile. in particolare
il primo segno di scrittura è il sopracciglio – comparso con l’homo sapiens –
curiosa linea di peli, prima linea mobile, flessibile, orientabile, oppositiva
– dunque prima scrittura. ancora oggi i movimenti del sopracciglio hanno una
funzione tanto decisiva quanto occulta e subliminare nei processi di
valorizzazione sociale (il bene e il male lo comunichiamo e costruiamo
soprattutto con alzate e aggrottamenti di sopracciglia).
ciò favorisce l’evoluzione – l’informazione, la tecnologiama anche per ciò mi piacciono i neri, sono meno scritti – meno tecnici. sono meno una scheda perforata, un quaderno quadrettato, e più un materiale, una sostanza, un’essenza.
un nero lo ero. io sento nel corpo del nero tutta la profondità della storia dell’uomo, tutte le vicende somatiche che ci hanno portato dalla pietra a questo insensato, confuso, artificioso affastellamento di segni che è un io.
dakar
dakar, allucinazione reticolare, immenso tessuto senza
inizio né fine, se non i contorni irregolari delle coste, che sfumano nella
luce estatica dell’oceano: una specie di tenebra luminosa che avvolge
l’allucinazione.
in
questo aculeo di terra che spunta dall’Africa nera la natura pulsa e ingorga le
sue energie sorgive con più violenza,
è un’allucinazione fatta di faglie cupe e abissali e luci
abbaglianti e fosforiche, di vampe di colori e puzza insopportabile (è la
miscela miasmatica del CO2 delle auto e le esalazioni delle fogne a cielo aperto,
per fortuna spazzata di continuo dagli alisei)
procedendo nell’interminabile budello rettilineo dal centro al
sobborgo di wakhinane (vado al matrimonio del mio figlioccio ablaye),
3 ore di code estenuanti, le auto rugginose, sbrindellate e pestilenziali
(tutti scassoni euro zero, tutti residuati occidentali) si accalcano
una sull’altra come una mandria ingovernabile, sgasando e strombando, rischiano
ogni momento di travolgere donne e bambini, o i ragazzi appesi ai portelloni
dei piccoli soupere fatiscenti e variopinti, e quelli le cui teste
rigurgitano dai finestrini. un camion manda in frantumi lo specchietto di un
furgoncino, ma nella sardana apocalittica nessuno fa caso al turbine di schegge
che vorticano nella luce prima di spargersi a terra. i gasteropodi molli e
teneri nei gusci di lamiera ridono e comunicano fra loro imperturbabili, a voce
o coi portable, e le loro risate rendono più irreale, trasumana e
imperscrutabile la scena. la polvere ocra si gonfia sulle strade sterrate che
intersecano i mercati e le bidonville, ma il miracolo
(la luccicanza del sacro) è che questo coacervo amorfo è attraversato
e come sospeso in una dimensione onirica dalle meravigliose, altere e illese
donne senegalesi, inspiegabilmente intatte, pulite e eleganti, flessuose e
sofficemente ancheggianti nelle loro livree sgargianti e fiabesche, da cui
affiorano le carni strepitosamente lucide e nude, o dalle folate dei bambini
dagli occhi allegri e malinconici, d’uccello e di scimmia, di cane e di statua
greca del periodo arcaico. fra 15 giorni è la grande festa dei montoni,
il tabaski, e i piccoli greggi sono disseminati ovunque, rovistando fra
l’immondizia accatastata e brucando i rari arbusti. un bambino abbraccia e
sbaciucchia una capra barbuta come si fa da noi con i pupazzi dei pokemon.
natura
nei colori ignei, clamorosi, radianti, nelle pelli
seriche e lucenti, nell’odore primitivo, ferino, e insieme infantile e
fruttato, che promana da quelle pelli, nelle muscolature vigorose e prominenti
fasciate da quelle pelli – i contrasti si impongono con più evidenza.
natura?
nel quartiere
di wakhinane fotografo degli splendidi aironi bianchi, che nidificano
liberamente sui rari alberi, e spiego ai bambini che mi accompagnano che mi
piace fotografare “les oiseaux”. mi fanno capire che hanno degli uccelli
molto migliori, e li seguo in una catapecchia maleodorante di pesce essiccato. nella
semioscurità, con gli sguardi luccicanti di orgoglio, mi mostrano il tesoro di
4 galline spelacchiate e starnazzanti. mi viene in mente che la nostra più
preziosa rivista di ambientalismo si chiamava airone, e che qui forse gli
preferirebbero un nome come gallina. forse non avrebbero torto, un airone è
infine una gallina stinta, nasuta e col collo curvo.
l’immenso reticolo che ricopre compattamente la
terra rossa e umorosa della brousse, è formato da cellule umane avvolte
nel triplice guscio degli abiti, delle auto e delle case. come nella nube
quantica, nel web, nella blockchain e nel sistema nervoso, i punti della rete fluttuano
freneticamente da un ganglio all’altro: gli uomini dentro o fuori della capsula
di lamiera, attraverso i nodi di scambio delle case o
i macrogangli dei mercati, o collegati fra loro dalla fittissima rete
di fatiscenti telecentre o portable della
vodafone e la tico. gli uomini mutuano incessantemente il loro posto fisico e
psichico, le loro informazioni e esperienze, il loro denaro e i loro beni.
scambiano e commerciano tutto, anche i loro stati
psichici, ovvero quello che chiamiamo anima, ma poiché hanno un senso della
proprietà poco accentuato, non la perdono, come accade in occidente. il loro
commercio è dunque essenzialmente una forma della comunicazione, filosofia che
si giustifica nella figura di maometto, commerciante oltre che mediatore fra
umano e divino.
what else?
qui il tecnologismo e il consumismo occidentale si sono
andati a sovrapporre violentemente e discontinuamente a una cultura arcaica,
generando una sorta di tribalismo tecnologico,
di tecnologismo istintuale. arrivano le auto, i cellulari, le
mitologie televisive, ma continuano a colonizzare, in forma meno cruenta ma più
strisciante e insidiosa, un tessuto che non ha avuto il tempo di strutturare
difese e anticorpi culturali, attecchiscono su psichi irriflessive,
che ne vengono spesso devastate, o li metabolizzano in una forma confusa e
instabile, una forma estremamente dinamica, ma che in ogni caso porta con sé
tutti i deterioramenti e impurità dell’imitazione. senghor è stato un
“grande” presidente (guida dell’indipendenza nel 1960, più volte candidato e
inspiegabilmente privato del nobel per la letteratura) perchè è stato
uno dei teorici della negritudine e della riscoperta delle radici
territoriali. eppure si ha talvolta la preoccupante impressione che anche quella
di natura sia una categoria “bianca”, importata, o tout court un artefatto che
i neri potrebbero rifiutare.
8 domande a senghor (storia illustrata, 1963)
l’africano è un sincretista, assimila, mescola, centrifuga,
secondo una modalità che è infine squisitamente culturale, e proprio in virtù
della quale, insieme a una serie di comportamenti che a noi possono apparire
spuri o kitsch, ha elaborato nel tempo ciò che chiamiamo negritudine o identità
culturale africana. alcuni studiosi di colore sono arrivati peraltro a
considerare lo stesso relativismo di matrice antropologica, che vorrebbe
salvaguardare i caratteri etnici di questi popoli, come un’ennesima ideologia
di sopraffazione, finalizzata a confinare le culture africane in un presunto
primitivismo, e incapace di riconoscere la dinamicità della loro nuova
realtà.
eppure bisogna anche ammettere che esistono valori peculiari di
questi popoli, esiste una loro identità, radicata nella biologia, nella
geografia e nella storia che va difesa dalle acculturazioni e contaminazioni
occidentali. basti pensare alla ricchezza emotiva (all’abissale divario fra
indici del benessere e benessere percepito, in gergo sociologico) dei bambini
di wakhinane, città- dormitorio della quale di giorno essi diventano
padroni incontrastati. ebbene, è difficile immaginare una
forma umana dell’ allegria più pura di quella che si
impossessa di questi bambini. è un’allegria che scoppia, che crepita, che
spumeggia dal sangue giovane, che si sgrana a raffiche dagli occhi e dai
polmoni. è il corpo libero che pulsa, che si rotola nella sabbia e armeggia con
le lattine di pomodoro. è un’allegria unanime e sincrona, a fasci, più peculiarmente
di quanto il riso non sia sempre una manifestazione psichica collettiva.
qui siamo vicini alle radici biologiche e culturali dell’uomo, e
ogni fenomeno psichico si manifesta nella sua forma più pura, intensa e
disinteressata. se l’africa è un’immagine altamente probabile del nostro
futuro, è perché è da questo centro che si è irradiata la nostra specie, ed è
qui che, grazie alla nuova velocità di scambio informativo del mondo
globalizzato, la tecnologia di ritorno potrebbe assumere le sue caratteristiche
definitive e più propriamente umane. dopo le mutazioni che milioni di anni fa
hanno prodotto la nostra variante depigmentata e esangue, fisicamente
degenerata, l’africano ha ora la possibilità di riappropriarsi del mondo, o
solo, speriamo dal nostro punto di vista, della propria funzione e identità.
l’africa
è la nostra origine, l’africa e giovane, ed è per questo attraente, ma è vero
che, se il sogno di ogni africano è l’Europa, è irresistibilmente e fatalmente
gravitata dall’Occidente, e che dunque l’Occidente e l’Africa devono
riconoscersi un desiderio e una responsabilità reciproci.
forse questo paese mi piace per un equivoco... mi piace
perché rappresenta il fallimento del progresso... perché ha mancato il
progresso, e ha il fascino della nave sfasciata che va avanti da sola, o quello dei luoghi dismessi e abbandonati, delle archeologie industriali... perché
non è riuscito a diventare efficiente, ma ha lasciato l’uomo quel che è, una
cosa insensata del mondo... perché è un’immagine della nostra impotenza...
è un paese pornografico, dove si vede dietro la pelle la carne
delle cose, il meccanismo, dove si vede dietro i vestiti, dietro le parole,
dietro il camuffamento del discorso l’amore che avviene...ma senza le pretese
insensate della descrizione scientifica... un paese che è poveramente se stesso
– e quasi ontologicamente...
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