Qualcuno ha scritto che l’io è sempre proferito, cioè “portato davanti”, prodotto in qualche modo da un movimento delle labbra. Il rapporto fra il corpo, la voce, la phonè, e questo io rappresentato, simbolico, linguistico, è probabilmente alla radice della poesia di Caterina Pontrandolfo. Nei versi “In punta d’ago”
si alterna una scrittura lirica di cifra barocca, venata di surrealismi, con quadri e narrazioni, che assumono prevalentemente la forma della ballata, in cui la tensione lirica viene distanziata nel racconto impersonale. Sono entrambe forme di scrittura letterarie, secondarie, mediate da un gesto tecnico. In entrambi i casi tuttavia quel che racconta la scrittura è il corpo colto nei suoi momenti di massima tensione, è il corpo appassionato, il corpo che patisce e gode il mondo, il corpo al proprio acme. Questa passione è simbolizzata dal rosso, tinta che pervade tutta la raccolta, la intride, la riga, ne squarcia la struttura: rossi i grani del melograno che la poetessa spacca con violenza sacrale, come un cuore ricco e sanguinante, rossa la spuma del lago Vittoria (ancora un simbolo cardiaco), rosso il sangue, la carne, che impatta il mondo.
Caterina Pontrandolfo è prevalentemente, o preferenzialmente,
cantante, attrice, etnomusicologa. Chi l’ha ascoltata cantare, resta incantato dalla sua voce di cristallo:
cade in quell’incantesimo
(incantesimi e scongiuri sono tutte le prime manifestazioni poetiche) in cui la
poesia sospende la vita. Cantando, Caterina cristallizza
la passione, porta a incandescenza il corpo e ne trae l’essenza depurata della sua
voce. In questo momento del suo percorso espressivo, si è trovata di fronte
allo stesso problema, quello di organizzare e disporre in una forma la sua
vicenda umana, il suo conflitto col mondo, la sua tensione all’assoluto. Il
lavorio di cristallizzazione e riduzione all’essenza, di sedimentazione delle
scorie, di astrazione e formalizzazione del gesto, che finora aveva operato sul
proprio corpo, l’ha dovuto inscrivere in una lingua proferita. L’operazione è
riuscita quando quello stesso corpo è riuscito a trovare quella stessa forma. C. P. ammette il proprio debito nei confronti
della poesia di Lorca. Effettivamente, come accade in Lorca, la sua poesia
trova la riuscita migliore quando vena di immagini surreali, rutilanti, attinte
agli strati profondi del corpo, la narrazione delle eterne vicende degli
uomini, il canto nuziale che si rifà all’epitalamio, il romance gitano, la
ninna-nanna. Qui impiega con soluzioni spesso originali i ben noti moduli tipici della poesia popolare
- iterazioni, parallelismi, anafore talvolta chiastiche ((le donne tutte/ tutta
l’acqua hanno portato via) – trovando dunque quella stessa ritmicità,
cantabilità, quello stesso melos con cui aveva imparato a dare forma al
“corporeo”. Qui “la fiamma è ristabilita nel cristallo”, secondo l’espressione
di Heidegger. In Ballata nuziale, ad esempio, l’io narrante prescinde da ogni
complessità psicologica, e sospende la vicenda in una dimensione ingenua e
idealizzata, in cui i personaggi sono agiti da funzioni elementari. Con una
sapiente ellissi diegetica, e secondo uno stilema che deriva peraltro dalla
tragedia greca, l’autrice non racconta il momento della morte dello sposo, ma
vi allude fulmineamente e con ciglio asciutto nell’ultima strofa, drammatizzando
così al massimo grado il conflitto eros/thanatos.
E’ da dire peraltro che il bisogno di oggettivazione, il
pudore sintattico porta l’autrice a oggettivarsi in un io narrante anche nelle
composizioni più liriche, che sono infatti spesso declinate al maschile. Non è
dunque mai l’io di Caterina che si
esprime direttamente, ma quello di un “personaggio lirico” che lo fa in prima
persona. L’io si inscena in un io di secondo grado. Questo bisogno ironico di
distanziarsi, per le leggi della psicanalisi, è direttamente proporzionale all’intensità
del pathos. Le “mani che forgiano dolore”, forgiano dunque un dolore altrui, in
cui l’autrice si riconosce, poiché la vera lingua di Caterina è in realtà
“paralizzata nell’origine”, e comunque “la parola semplice/ è un nulla”.
La poesia ha assolto dunque alla sua funzione, che è quella
di depurare il corpo, di stabilizzarlo, di differirlo in una dimensione
atemporale, di trasporlo in una struttura oggettiva distinta, in cui il caos, l’instabilità, l’insensatezza
del vivere trovano la loro giustificazione nell’ordine superiore della ragione
poetica. La poetessa, o colui che la
scrive, stavolta ha tradito il dio con il demone della bellezza, e forse il suo
“lutto senza grazia” se ne è per un attimo redento.
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