c’è una zona oscura, che si estende oltre l’area in qualche
modo conoscibile della psicologia, della politica o dell’antropologia.
noi possiamo sapere chi ci dicono di essere, ma non possiamo sapere chi siamo,
possiamo spiegare perché, data una certa
origine e certi fini, siamo e agiamo in un certo modo, ma non possiamo spiegare
quell’origine e quei fini... alcuni atti
umani accadono in aree liminali, zone di confine, presso i valichi o i punti di
consunzione del sistema... se preghiamo (se giungiamo le mani e ci mettiamo in
cortocircuito per pregare), se poetiamo (se disponiamo in una certa forma vibrazioni e flussi d’aria), se ci innamoriamo (condizione diversa
e discontinua rispetto a un normale stato affettivo) noi ci esponiamo a questo
fuori-sé...il paradosso è che questo inumano è connesso all’essenza stessa
dell’umano ... l’uomo è forse profondamente lo zoon manikon, l’animale folle,
o suscettibile di impazzire, a cui si è spalancato,
nella lesione del linguaggio, il non linguistico...
l’uomo è tale perché ha un limite da travalicare e un ordine da sconvolgere.
l’uomo è tale perché ha un limite da travalicare e un ordine da sconvolgere.
pensiamo alla follia delle piramidi, all’immane lavoro speso
allo scopo improbabile di “trasmigrare”, di persistere indefinitamente (in un
non-linguaggio)...nessun animale potrebbe compiere un atto così insensato. o ad
uomini che hanno dedicato la vita alla composizione di oggetti
di aria o di tracce nere “belli”... o alla percezione di eccesso, di inesauribilità, di
prodigio, che producono in noi la pelle o gli occhi o il sesso di una persona
di cui siamo innamorati.
o anche una signora che stende i panni, con i lenzuoli che
sbattono al vento, può per un istante inargentarsi, può trasmutarsi,
può divenire qualcosa che non stende più i panni, si fa spazio aperto – sagoma
a forma di quello stendere i panni – su quell’oscurità che è dell’altra parte,
su un “oltre la signora”.
o ci può essere un istante in cui l’asfalto della strada
sfonda il linguaggio, e diventa una pasta grigiastra lontana e ignota,
qualcosa a cui non si può agganciare nessuna causa e effetto, nessuna rassicurazione o nessuna funzione e
nessuno stato, qualcosa che si abbatte direttamente sui neuroni e la pappa
molle della carne, ci sei tu e quella cosa del mondo, e non puoi dartene
alcuna ragione. quell’asfalto ha in qualche modo aggirato l’io, e tu ti ritrovi
fatto della sua stessa sostanza ottusa e incomprensibile.
noi non possiamo costruire nessuna politica o antropologia o
psicologia utile agli uomini se non la fondiamo ai limiti dell’umano, in questa
incompetenza, in questo trasalimento – se non
ci siamo bruciati alle sue temperature insostenibili, se non abbiamo vacillato
sul suo precipizio, se non ci siamo aboliti di fronte alla sua numinosità, e stupefatti della sua flagranza. se non scriviamo di
questo facciamo retorica, facciamo rappresentazione, facciamo "qualcosa" che non
si chiede “qual” è la “cosa”.
mi piace l'idea d'essere abbagliati dalla numinosità. di sgolare un orlo straziante, acutissimo, bruciando a temperature insopportabili. d'annusare la flagranza di reato dalla corolla della parola "cosa" in sé. eh, eppoi rimuginavo che, in effetti, se l'adagio ci ricorda che "ogni cosa ha un limite", forse non è troppo avventato inferire che "ogni limite ha una cosa"...
RispondiEliminaciao malos...sì, forse c'è da riflettere su questo...ogni cosa ha un limite, ogni limite una cosa in sé...il pezzo proprio in questi giorni è stato postato da un'amica anche su carteggi letterari...chiedo lumi anche sulla grammatica greca, che in realtà non conosco...fra conoscenti dilettanti, qualcuno mi ha detto che con zoon va manikon, qualche altro che va manikos...
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