sabato 3 novembre 2012

cronache da luoghi per ora non scoperti




scompongo un altro, e me ne compongo

mi deduco dal mondo

faccio il mondo polpetta molliccia e castana, e mi ci impongo

chiudo una vita, la ripiglio

annetto vita, degrado mondo

divento lungo

faccio dell’altro il sé, del fuori il dentro. Lo rientro

immetto mondo nel gradiente

cefalo-caudale, lo trituro, e ne assurgo

tubo pensante.

ecco che cosa ho fatto al ristorante

 
 
 
c’era uno che aveva una strana peculiarità, un curioso disturbo. per vivere, pressoché tutti i giorni aveva bisogno di mangiare. dunque per essere se stesso, doveva servirsi di cose che non erano lui, di spoltigliare e infilare nel proprio corpo queste cose. le prendeva da svariati posti, dai mobili di certi luoghi strani appositi, o direttamente dalle piante, o da amici che lo aiutavano. in genere poi le conglobava in strane miscelazioni, che rammolliva e disfaceva con le lingue bollenti del fuoco.
ad esempio, prendeva un certo essere che era ancora se stesso, gli eliminava la vita con un ferro, lo faceva a parti senza seguito, lo combinava a dell’essenza gialla che aveva spremuto da certe palline verdi che si vedono a volte appese agli alberi, poi a un colorante rosso di altre escrescenze del mondo, e metteva tutto mischiato in un altro ferro incavato a cui forniva calore. strano a dirsi infine lo pigiava per il tubo che parte dalla bocca, così che alla fine era invaso, impregnato e modificato in ogni parte da questo altro se stesso così malridotto. anche da morto, quell’altro naturalmente cercava di fuoriuscire da quell’uomo, e dopo vari moti sussultori e brancolamenti, trovava sempre uno spiraglio, forzando la rosa crespata di muscoli in fondo al corpo, e tornava alla luce, ma ormai era ridotto a una forma marrone senza senso. quest’uomo visse tutta la vita così, diventando quelle cose, e in fondo cessando anche lui di essere lui quando se le metteva dentro. la passò così liscia liscia per tutta la vita, e infine perse la sua lingua e il suo corpo in maniera naturale, e divenne il sé di esseri più piccoli, che non sapevano niente di lui.

 
post anticipato per ragioni tecniche. pubblicato effettivamente il 28-1-2014
 

4 commenti:

  1. io sono un cuoco e ciò che lei ha descritto mi ha colpito molto

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  2. grazie, mi fa piacere se sei (seguo la regola del tu in rete...) davvero un cuoco...permettimi però di precisare che questa non è propriamente una polemica vegetariana - se pur liberamente interpretabile - personalmente penso che non c'è differenza fra mangiare carne o insalata, questo è il sistema della vita... dobbiamo però essere consapevoli di ciò che questo significa... e anche di come la necessità di mangiare sfumi ulteriortmente, diciamo così, la differenza fra sé e non sé...

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  3. bello. mi piace l'idea: seduto sul cesso cesso ciò che resta delle cose.
    : )
    e la domanda cosa resti di me, che cosa sono, m'appare resti tutta sospesa nella doppiezza tra interrogazione e affermazione (trazione e reazione).
    intrigante anche il "divenne" sul finale, sebbene a onor del vero bisognerebbe decidere se già prima un organismo nel quale si trovano più di tre milioni di geni batterici e *solo* 200 mila geni di homo sapiens (le cellule batteriche sono 10 volte più numerose di quelle umane) sia davvero sé o altro da sé.
    : )

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  4. malos grazie per i davvero intelligenti commenti, in partcolare su ana saphta, poi magari ti rispondo meglio perch' al momento sono immerso nel sole, la sensualidad e il casino dei caraibi... ciao livio borriello

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