ebbene, che io non giochi, può essere a sua volta un difetto, ma anche, diciamo così, una reazione a un’ideologia dominante del gioco, a una fase sociale in cui si gioca troppo, in cui la vita e l’esistenza si giocano, e non si vivono e esistono. certo, ci sono almeno 3 grandi giocatori – dostoievski, landolfi e de sica, per restare nella letteratura - che mi contesterebbero: questo è il bello.
che rivendico, o magari recrimino, in sostanza? che la mia
scrittura riduce al minimo la componente agonistica, ludica e feticistica –
implicite a ben scavare in ogni scrittura di qualità, o meglio in ogni
scrittura la cui qualità sia riconoscibile e misurabile - e nasce da una
condizione del corpo, che poi suppongo corrisponda a quelle di altri corpi e
dunque a un’istanza sociale. che in virtù di ciò, quel che c’è di essenziale in
essa ha luogo fuori dal testo, prima e dopo il testo, nelle tracce, nei solchi
(anche quelli solchi di linguaggio, certo...) in cui esso defluirà, e negli effetti che esso produrrà, o più ampiamente nelle sue "ripercussioni".
la condizione del corpo da cui parto è questa. io avverto in
maniera attenuata i rapporti di discontinuità fra le cose. mi percepisco come
un addensamento della viscosità dell’aria, avverto continuamente la pressione osmotica
del mondo che mi circonda. il confine frastagliato e sfrangiato della pelle che
mi isola in qualche modo, non mi sembra che un sottile e convenzionale diaframma
fra settori di un unico organismo. sbavo
da un punto all’altro, mi proseguo con i fiotti gassosi che pompo e espello, con
la luce che rifletto, con ogni atto d’esistenza, e soprattutto con le
protuberanze e emanazioni fonetiche che emetto, che rilascio, che traccio, di
cui dissemino il mondo, in qualsiasi spazio che mi circonda, e ancora di più
viaggio nei neuroni e le coclee e uvee e magazzini di memorie degli altri
addensamenti che mi assomigliano, o meno.
post-riflessioni sul gioco
immagino cosa avranno pensato alcuni miei amici, difensori a spada tratta della giocosità, ad esempio francesco forlani, gabriella giordano, grazia coppola o roberta durante, leggendo queste righe.... chi mi conosce sa che io sono prevalentemente diciamo un interiore, un introverso, e che in generale sono piuttosto disinteressato al gioco e al giocare...quasi sempre mi annoia, in verità....tuttavia io sono fortemente per la vitalità, per tutto ciò , ad es. l'eros, l'arte, o l'umorismo o le forme di cultura o anche di esistenza "bassa", che la manifesta... il problema allora è se il gioco sia veramente una manifestazione tanto importante della vitalità, o sia invece spesso un differirla, un circoscriverla, uno stemperarla nella sua simulazione... la gratuità, la follia, lo scatenamento dal necessario espresso parrebbe insostituibilmente dal gioco, è davvero solo lì che possiamo cercarlo? e cosa ci hanno insegnato allora i situazionisti?
post anticipato per ragioni tecniche. data effettiva di pubblicazione 14-11-2013
ma se eccedi, ridondi, fluttui, pulluli, e svii insieme alla materia di cui percepisci avverti l'eccedere il ridondare l'erompere il fluttuare, quasi tu fossi e particella e ricco (tu)tto, se insomma il solco - sonante, consonante, alto, basso - è questo dai tempi di Hammurabi e tu sei da un'altra parte a esprimere un penso-sento (o un penso-penso), non trascrivibile, non dicibile, che nel solco scrittorio proprio non ci sta, ma perché insistere con questa forma? Non è meglio fotografare un cielo, o squartare una mucca à la Hirst?
RispondiEliminacon quella che è lontana parente dell'antica parola animista, in fondo, si può percorrere bene il quotidiano delle strade, fuori da ogni racconto.
RispondiElimina@ll'anonima (che credo di poter nominare) : ma io dico che l'essenziale sta fuori dal testo, non fuori dal linguaggio, dunque fuori dalla letteratura, non fuori dalla scrittura
RispondiElimina@ ale: sì fai bene a parlare di animismo... un animismo forse invertito, che parte dal togliere l'anima anche all'uomo, e poi ne attribuisce un'altra all'uomo e alle cose