martedì 30 luglio 2013

uno spettro si aggira fra i libri: il sentimento


                                                                        Per comprendere, l'intelligenza deve sporcarsi. Prima
                                                                        di tutto, perfino prima di sporcarsi, bisogna che sia
                                                                        ferita. (H. Michaux)

qual’è il pericolo che incombe sul mondo secondo una certa categoria di letterati? pare che sia il sentimento. non cito toto cutugno, ma l’inumano nietzsche: i pensieri sono le ombre dei sentimenti: sempre più oscuri, più vani, più semplici di questi.

in altre parole, il complesso processo di frattura, di dislocazione e contrazione temporale, di riarticolazione del linguaggio su un altro corpo non presente, e sui suoi multipli e stratificati meccanismi, che produce ad esempio il sentimento della nostalgia, è assai più ricco e interessante della sua concettualizzazione in un’analisi storica o psicanalitica
                                              , che consiste in poco più che una semplice registrazione e composizione secondo una regola meccanica (un po’ nel modo in cui una melodia è più complessa, e ricca di informazione e di scarto inventivo di un virtuosismo strumentale... si pensi anche a certe pagine di rené thom, che ci mostrano come un'informazione non lineare quale quella di una forma della natura sia topologicamente assai più complessa di una sequenza lineare alfabetica)

ecco la ragione per cui un babbuino e pare anche un’otaria può comporre parole e numeri, ma non potrà mai commuoversi per la fioraia cieca di chaplin (rammentiamo che non per nulla la scena fu  ripetuta 342 volte)  e nemmeno per un’otaria cieca (semmai, solo, in qualche modo, piangere) .

tuttavia, fare critica (infatti, sì, loro suppongono che esista la “poesia”, la “letteratura”, e quindi la “critica”) per questa compagnia di giro consiste pressappoco nel dare stellette e palline agli scritti più esangui e incorporei, più raggelati e naturalmente (bella forza) ineccepibili e inattaccabili, ma inevitabilmente più noiosi e insignificanti. uno scritto significa infatti sempre il corpo per cui sta o che prolunga, e privo di quello, resta un simulacro e un feticcio. che cosa significa un testo, se non significa un corpo che traspare nella sua indecenza e nudità, nella sua vulnerabile e rischiosa esposizione? che cosa deve dire il linguaggio, se non la non significanza, se non la carne sfigurata, se non l’imbarazzante,  ridicola e oscena nudità della passione umana? la scommessa naturalmente è consolidare in qualche modo questo materiale in una forma, o detto con un noto paradosso, che però resta una boutade piuttosto puritana, ricrearlo artificialmente per esprimerlo con più efficacia. ma come nella nevrosi il significante inghiotte il significato, nella letteratura gli stanchi epigoni delle vive esplorazioni concettuali di 50 anni fa si mettono al sicuro da ogni rischio, da ogni vertigine, con l’alibi del controllo formale.

il problema come sempre è preliminare. questa comunità o combriccola, che si potrebbe definire con qualche  approssimazione dei vetero-avanguardisti e degli asemantici,  o solo dei neo-feticisti, che generalmente passano la vita ad animare premi (che si assegnano infallibilmente l’un l’altro), compilare antologie, scalare accademie e redazioni e azionare i muscoli sopracciliari, non assumono in realtà una prospettiva radicalmente etica (semmai addizionano all’azione letteraria un impegno sociale che ne resta estraneo, e agisce parallelamente con tutt’altri linguaggi), ma di fatto prevalentemente agonistica e feticistica. i 2 atteggiamenti sono connessi. il testo è ridotto a un feticcio che esaurisce in sé il suo significato. il testo, essendo in rapporto solo con altri feticci, esistendo solo in una dimensione orizzontale, non offre altro interesse che quello del confronto formale e quantitativo con altri testi. per prospettiva etica, intendo qualcosa di più che responsabile, semmai responsabile di uno spazio che ben al di là del perimetro e dello spessore letterario, comprende tutto il percepibile fino a forzarne i confini.

cercano il testo di buon gusto, (ma “assolutamente moderno”!),  caro ai borghesi e ai formalisti e neo-parnassiani e neo-accademici di tutte le ere. si pongono davanti allo scritto con l’occhio sopraffino di michele l’intenditore, quando faceva ruotare il whiskie nel cristallo, e dai sentori  che ne sprigionavano e vagliando i riflessi e gli archetti (!), emetteva la sua squisita sentenza, fra i gridolini di ammirazione dei convitati: michele ! lui sì che se ne intende. a questo hanno ridotto la parola, e cioè l’essenza costitutiva della specie uomo.

in sostanza questi intenditori che non se ne intendono, inumano il testo prima che nasca, quando è ancora feto (feticisti, e pure fetisti !). producono e inducono testi già morti, prima ancora di svolgere la propria funzione, che è quella di agire nel mondo, produrre effetti, entrare nella circolazione di passioni, pulsioni, repulsioni e revulsioni, desideri, spasmi, conati, aneliti, in una parola sentimenti, che anima e costituisce la comunità di pezzi di carne sperduti di cui siamo parte, e nel cui campo può assumere qualche vago senso la parola. per svolgere questa funzione, il testo non deve essere ancora testo... lo diventerà per i posteri, se posteri ci saranno, lo diventerà nei cimiteri delle antologie, lì dove la cultura viva e gramscianamente coinvolta nelle cose umane, si riduce a pezzi inerti di sillabe e concetti...questa inevitabile fase obitoriale loro la pretendono dal linguaggio appena emesso dalla carne, nei fiotti ancora caldi, nelle secrezioni necessariamente ancora aromatiche, grevi, sporche, scomposte.

il risultato di tutto ciò, è che se la letteratura non ha mai interessato nessuno, ora non l’interessa colpevolmente, perché non ha nulla da dire e guarda caso non dice nulla. la poesia di questi anni è diventata un cortese o spesso scortese scambio fra addetti ai lavori, una gara a chi esegue con più destrezza l’esercizio assegnato, una profluvie di finezze che non fanno ridere e non fanno piangere, da ammirare più che da amare, o da amare con i recettori letterari sensibili al potere e alla forza. non per niente credo che le uniche espressioni artistiche di questi anni che in qualche modo resteranno, non siano affatto quelle che vi aspiravano, ma semmai certo rock, certi video e certe performance di comici come corrado guzzanti. poesie di questi qui, no di certo. se non, forse, in alcuni casi, loro malgrado.

mi si obietterà: ma tutto il “contemporaneo” trae  il suo senso proprio dal non aver nulla da dire, e da un certo significato che questo svuotamento produce, o quantomeno si dispone nel vuoto scavato da questo paradosso, da questa estrazione di senso. infatti questi intenditori che depreco non hanno realmente nulla da dire, essi dicono incessantemente che dicono meglio degli altri di non aver nulla da dire, e dunque dicono qualcosa, questa cosa, che però non è interessante. in altri termini, la loro finalità è essere intelligenti, proposito che però quasi mai coincide con l’esserlo.

a questo fine adoperano una lingua posticcia, una lingua di sintesi, un tessuto tecnico, che non userebbero mai per fare la rivoluzione, per chiamare l'ambulanza se hanno un infarto o per persuadere il partner ad accoppiarsi,  ma nemmeno nel sogno, nella preghiera o nella possessione. è una lingua che esiste solo nella dimensione pellicolare della carta.   

ci sono alternative che restino rigorose a questo tipo di scritture? direi di sì, e sono scritture ben consapevoli del fatto che il sentimento è un’elaborazione linguistica complessa come il concetto è una modalità percettiva e sensoriale. valerio magrelli, che ha letto probabilmente più libri di tutti gli “intenditori” messi insieme e ha una scrittura assai più disorientante e graffiante della loro, ci ha consegnato con Geologia di un padre un libro straniato, cruento, quanto sentimentale. peter handke ha scritto capolavori sulla figlia e sulla madre suicida, valere novarina racconta un uomo tanto disaderente quanto corporeo, istintuale, tattile e sensoriale. franco arminio chiama il suo ultimo libro “geografia commossa dell’italia interna”, ma naturalmente gli intenditori apprezzano la sua produzione meno vertiginosa, forse tarata proprio sulla loro vacuità. mariangela gualtieri recupera risonanze emotive desuete e antimoderne, e ci parla senza remore di abbracci, di amore, di natura. mi viene in mente anche un piccolo capolavoro di ivano ferrari, macello, dove apparentemente non si trova un grammo di sentimento, e tuttavia lo dice. roberto saviano produce una scrittura la cui verità è garantita dal suo corpo e dal suo modo di situarsi nel mondo, un’opera che non si sostanzia semplicemente di questa innervatura etica, ma ne è fatta, consiste appunto in questo rapporto di un corpo al mondo, ed ha in tal senso una portata molto più ampia dei ghirigori e arabeschi che appena scalfiscono il foglio di certi sussiegosi poeti. qualche volta cade nella retorica e scade nello stile giornalistico? questo è un problema di michele.

ma infine, se ci poniamo di fronte alla questione con radicale e virile franchezza,  cosa autorizza il gratuito e volgare snobismo nei confronti di tante produzioni popolari sentimentali, da certe canzoni di claudio baglioni (intendo le 2-3- più riuscite) ai trottolini amorosi di non ricordo (concedo) quale cherubica ugola? dovrebbe bastare la coscienza della labilità dei confini psichici individuali,  del comune attingimento alla grande falda del linguaggio, per comprendere che i sentimenti posti in circolazione da queste opere, non solo non producono qualsivoglia danno, ma sostengono e strutturano insostituibilmente il tessuto sociale, e hanno dunque una funzione etica primaria.

senza il movimento eccentrico dell’emozione e la commozione, senza l’estasi romantica che porta fuori da sé, senza l’esposizione e la vulnerabilità che levinas descriveva come costitutiva dell’eros, l’etica si ridurrebbe al contratto sociale, la solidarietà umana a una voce della retorica della sinistra, e l’idea stessa di umanità a una specie di casuale accolita che si sorregge vicendevolmente per pura convenienza gregaria, non molto differente dalla babbuinità e dalla vermità.




il pezzo è stato anticipato da domenico pinto su Nazione indiana

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