martedì 4 settembre 2012

Le monde va finir / me di me privo

l'uomo propriamente uomo è una creatura lesa...è un animale che ha perso la sua integrità biologica. attraverso le lesioni penetrano in lui i succhi colorati del mondo, la coscienza del tempo, la paura, il senso dell'infinito... il suo desiderio assorbe i vuoti del mondo, lo rende smanioso, furioso, malsano... il mondo lo impregna e pian piano lo disfa, lo decompone, lo colliqua.

l’uomo è l’animale fallito, l’animale che non è riuscito a vivere "in pienezza", a dominare pienamente l’ambiente con la propria scarsa munizione naturale, e si è inventato quest’altro artiglio, quest'altro ordigno: la parola - da cui il pensiero, la cultura, la tecnica. il vero uomo è il gobbo leopardi, il vecchio e mite einstein, il basso, flaccido, sdentato e per finire ipopenico (ma iperarmato) bonaparte...
ma anche usain bolt, inseguito da un leone, ci sembrerebbe arrancare come un coniglio.

questo verme spelato, questa scimmia anchilosata, quest’unghia di dinosauro si dotò di un’appendice invisibile e quasi incorporea, incredibilmente prensile, dalla gittata portentosa, leggerissima ma indistruttibile, inavvertibile ma possente: il suono impresso e articolato nell’aria dalla glottide – con cui riuscì a fare un macello del mondo. siamo animali d’aria, deità dell’aria, creature a metà animali e per la metà vincente eoliche.

siamo però forse giunti alla soglia di saturazione del fallimento: troppi falliti, troppi intellettuali, troppa virtualità... il fallito può vincere o sopravvivere finché gli altri non scoprono il trucco, o finché ci sono animali che danno corpo alla sua macchina. non c’è più spazio, l’implosione è vicina, i maya avevano ragione: il mondo è finito, è restata solo la sua immagine, il suo scheletro d’aria, e noi siamo tutti ectoplasmi esangui e pallidi che si aggirano insensatamente nella loro fumisteria.



Me di Me privo

venendo da 3 giorni di febbre e digiuno, mi accorsi di quanto gli esseri umani erano cosa, una cosa pervicace che voleva agitarsi, e sembrava la coda delle lucertole autotomizzate, tranciata dall’aria, dalle onde termiche, dalla terra,
dai pensieri degli altri, dal continuo di una pasta sola a cui appartiene. e proprio questa era la vita che noi pensiamo fatta d’altro, e proprio perciò io ero tragicamente lontano da tutto, io come tutti, separati alla nascita ontologica, destinati da questa tragedia alla commedia delle relazioni.

tutto ciò mi appariva nella forma della bellezza, una bellezza remota e sfolgorante, una bellezza che consisteva nel non essere (più) me, ma autonoma inafferrabile pulsazione delle cose, della cosa, mio sangue in altrui corpi, mio peso e consistenza e temperature tiepide in altrui carni, mia lingua in altrui linguaggi, mio tempo nel tempo dell’altro, nell’ipod che in cifre lineari lo segnava.

data anticipata per motivi tecnici. data di pubblicazione reale 22-12-12

2 commenti:

  1. ma la catastrofe è così un soppiatto che pochi se ne sono accorti, e tanto poco interessante questa periferia da operetta metà-fisica che persino gli asteroidi si tengono lontani.
    Da qui il "pulsante fine-di-tutto", ma anche l'epifania delle quattro frecce lampeggianti di una cosmica Panda abbandonata nella cunetta di una provinciale, ai margini della via lattea.
    Bello leggerti.

    A

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  2. hai ragione, non siamo nemmeno più in epoca di catastrofi grandiose... con uno schianto, non con una lagna (o vicerevrsa?) diceva pound a eliot (o viceversa?)...

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