venerdì 22 ottobre 2021

Marta Russo - la sentenza dell'ignoranza

 Nell’era mediatica la verità “vince sempre” solo per sbaglio, quando coincide con la follia delle masse. Non è stato così nel caso della sentenza contro Scattone e Ferraro, il cui caso è stato riproposto ieri sera da Rai 2. Il bel documentario – Marta, il delitto della Sapienza – rievocava la figura, la storia e il caso giudiziario di Marta Russo, studentessa uccisa nel 1997 da una pallottola vagante. Nessuno può essere certo, ovviamente, dell’innocenza di Scattone, nemmeno chi ne è convinto come me. Ma chiunque abbia una cultura non solo tecnicistica e positivista come quella della maggior parte dei giudici, può essere certo che quella sentenza è stata ingiusta, e che nessun “ragionevole grado di certezza” è stato raggiunto. Si voleva un colpevole a tutti i costi, e un colpevole è stato trovato. Non si può condannare un uomo senza alcun riscontro obiettivo e senza  alcun movente, in base esclusivamente a 2 testimonianze chiaramente estorte, inquinate e contraddittorie: quella di Maria Chiara Lipari, che all’inizio non ricordava nulla e poi ha “ricostruito” il ricordo dopo oltre 2 mesi, estraendolo “dall’ano della mente” secondo le sue stesse parole, e quella di Gabriella Alletto, che nelle riprese e le intercettazioni (in un primo tempo nemmeno ammesse agli atti), ignara di essere ripresa,  gridava e giurava sui figli di non saperne nulla, e poi, dopo un interrogatorio a dir poco intimidatorio e ricattatorio (si rimanda al sito www.scattoneferraro.org) in cui era posta di fronte all’alternativa di essere condannata lei o Scattone, con la testa bassa e lo sguardo duro di chi sa che deve giocoforza mentire ha rinnegato tutto. Fra l’altro, durante questo interrogatorio, non conoscendo ancora il nome del secondo inquisito,  chiedeva al questurino “bisognerebbe sapere chi è l’altro”, per poterlo accusare.

 La mente umana allucina, ricostruisce, anzi la neuropiscologia ci spiega che è quello il suo normale funzionamento, e un innocente che si vede sul punto di cadere in un ingranaggio ingiusto non si fa scrupolo di far cadere nell’ingranaggio qualcun altro al posto suo. E’ così che in Italia dal dopoguerra in poi sono stati commessi secondo attendibili statistiche 4 milioni di errori giudiziari, tutti accertati e risarciti, è così che sono stati condannati Socrate, Cristo, Giordano Bruno, centinaia di presunte streghe, gli untori della peste manzoniana, Dreyfus, Sacco e Vanzetti, Valpreda, Tortora e 100 altri. Ci sono 1000 persone che testimoniano di aver visto la Madonna, e lo scienziato Swedenborg  che giura di aver parlato quotidianamente con gli angeli, ma ce ne sono altri 1000 che invece hanno visto Allah che gli ordinava di uccidere quei 1000 che hanno visto la Madonna. Non è così che si fa giustizia.

Ripropongo l’articolo che scrissi all’epoca, dopo aver a lungo studiato il caso e aver conosciuto direttamente Scattone e il padre.

 

 

Il giudice e la testimone.

Una riflessione sul valore della testimonianza a partire dal caso Scattone-Ferraro.

 

di Livio Borriello

Essere innocenti è  pericoloso, perchè non si ha un alibi

B. Makaresko

                           

Umbra profunda sumus

Giordano Bruno

 

 

Il mese scorso per la terza volta una corte italiana ha condannato Giovanni Scattone, Salvatore Ferraro e Francesco Liparota per l’ omicidio di Marta Russo. Le pene, rispettivamente 6 anni per omicidio colposo e 4 e 2 anni per favoreggiamento, sono in massima parte già state scontate dagli imputati in presofferto (e mai termine fu più adeguato). Con la prudenza cui ci si attiene di solito in questi casi,  la maggior parte degli osservatori si sono astenuti da commenti sul merito della sentenza, e hanno manifestato fiducia nell’operato della Magistratura. Tuttavia – posto che la giustizia è tutt’altro che infallibile e che le considerazioni di chi si sia fatta un’avveduta opinione dei fatti ne sono sempre state un necessaria forma di controllo - si ha l’impressione che negli ultimi anni le corti italiane abbiano emesso una serie di giudizi così sconcertanti, che questa prudenza comincia ad assomigliare sempre più a colpevole ignavia e incapacità di indignarsi. Il caso di Scattone e Ferraro sembra essere anzi una dimostrazione del fatto che l’indignazione etica, quella vera, quella che nasce dal rispetto per l’altro uomo e dalla compassione per la sua sofferenza, stia per passare di moda nella nostra società per essere sostituita da una sorta di suo degradato simulacro, l’indignazione politica e strumentale, simulata ai fini dei propri interessi. Si tratta infatti di un caso in cui la posta in gioco non è il potere o lo screditamento dei propri avversari, ma un ideale di giustizia, oltre che il destino di due disgraziati esseri umani,  e che proprio perciò sembra avere suscitato reazioni piuttosto  superficiali nell’opinione pubblica, nella stampa  e nel dibattito politico. Superfluo far notare come l’attuale Governo, quando si è trattato di difendere nella persona di Previti i propri interessi politici,  abbia mosso mari e monti, arrivando addirittura a proporre, approvare e applicare una nuova legge con una celerità e un’efficienza inaudite, mai viste nella storia della nostra Repubblica – e come invece l’alto sentimento etico che l’aveva ispirato si sia misteriosamente afflosciato negli altri casi.

   Il problema di Scattone e Ferraro va dunque inquadrato nel problema più ampio della perdita di credibilità della giustizia italiana, una giustizia troppo lenta e troppo imprecisa, che sbaglia troppo e fa troppo poco, che si accanisce con tragica dabbenaggine su un Enzo Tortora e non sa opporsi a mafia e camorra, che condanna in base a testimonianze senza riscontro Sofri e Andreotti (per citare due casi noti dietro cui si deve supporre un incalcolabile sommerso),  e tollera di fatto corruzioni e peculati, evasioni fiscali, abusi edilizi, che protegge i parlamentari e lascia languire nelle carceri migliaia di cittadini in attesa di giudizio. Come vedremo tutto ciò innesca un meccanismo perverso per cui l’ingiustizia pregressa, e la conseguente sfiducia nella giustizia, produce nuova ingiustizia.

 

Le contraddizioni dell’imputazione.

   Evitando accuratamente di perdersi in quell’ammasso di dati secondari da cui sembra essere sotterrata la verità in molti processi italiani  -  a lume di intelligenza, buon senso e quell’onestà consentita dal disinteresse le contraddizioni dell’imputazione sono facilmente riassumibili. Manca completamente il movente. Secondo l’accusa, avendo Scattone tenuto un corso sul delitto perfetto,  sarebbe quello di dimostrarne l’eseguibilità,  per una scommessa o per una specie di sfida perversa. Ma chiunque trova incredibile che due ricercatori universitari, si suppone dotati di un minimo di raziocinio,  organizzino un delitto perfetto alla presenza di 3 testimoni, con la porta aperta, alle 11 di mattina in un’aula universitaria. La tesi del colpo partito inavvertitamente dopo un’improbabile esercitazione in aula, e dell’omicidio colposo, è contraddetta dal fatto che soprattutto Liparota, ma a questo punto anche  Ferraro  e lo stesso Scattone, continuino a non confessare, quando ormai, con le riduzioni del patteggiamento, avrebbero già scontato le esigue pene loro spettanti.  Tutta l’inchiesta è stata costruita su un presupposto non solo indimostrabile, ma contraddetto dalle perizie più recenti, e cioè che lo sparo sia partito dall’aula 6 e non dal bagno dei disabili della Facoltà. Sulla base di queste false  ipotesi sono state ricercate, torchiate ed estorte  le testimonianze di Gabriella Alletto e Maria Chiara Lipari. Come spesso accade in questi casi è crollato il presupposto ma non il castello accusatorio costruito su di esso. In sostanza gli unici indizi a carico sono queste due testimonianze. Ma si tratta di dichiarazioni entrambe incerte, per vari aspetti inverosimili,  contraddette in fasi successive dalle testi,  prodotte oltre 35 giorni dopo il delitto e innegabilmente inquinate dalle modalità degli interrogatori.

 

Il video-choc e l’interrogatorio dell’Alletto.

   Il fatto più incredibile è che la prova di questo inquinamento, il cosiddetto video-choc, che documenta come l’interrogatorio sia stato inequivocamente suggestivo,  per usare il puritano linguaggio giuridico, o in termini più aderenti scandalosamente ricattatorio e intimidatorio  (ammissibile, a voler essere elastici, al massimo come provocazione della teste, mai come prova), sia stata ignorata per tutto il corso del processo. Innanzitutto il video non è stato acquisito agli atti per 5 anni – come se ciò che quel video riproduceva non fosse mai esistito e come se in questo periodo Scattone e Ferraro non avessero sofferto in galera. Gli addetti ai lavori, credendo con ciò di dare segno di alta coscienza e competenza giuridica, ci spiegano che ciò è dovuto a ragioni formali  ineludibili. Ma ci possiamo chiedere: se in quella cassetta fosse stato mostrato l’assassino che sparava, sarebbe stata acquisita? Se la risposta è no, la giurisprudenza che regola questi casi  ci appare assurda e aberrante, se la risposta è sì, dobbiamo ammettere che essa è rigorosa solo quando la sua assurdità e aberrazione non sia evidente, e dunque è altrettanto assurda e aberrante. E’ evidente quindi che esiste innanzitutto un problema di legislazione e di procedure.  Il 29 novembre di quest’anno il video è stato acquisito, ma  i giudici – forse per attenuare il tardivo pentimento -   hanno dichiarato che non cambiava sostanzialmente i termini della questione e hanno ribadito la condanna di colpevolezza. Qui il problema dunque sembra essere un altro.

 

Se è vero che ci sta il Cristo io non lo so, guardi....

   Nel video si vede la testimone chiave,  Gabriella Alletto che,  ignara di essere ripresa, piangendo,  giura sulla testa dei suoi figli al cognato questurino di non saperne nulla del delitto, di essere matematicamente certa di non essere entrata nell’aula 6 , e via di questo passo per ore. Usa un linguaggio estremamente immediato, credibile, espressivo (se è vero che ci sta il Cristo, io non lo so, guardi...), manifesta emozioni che nessuna consumata attrice sarebbe in grado di simulare. La parola, si dice,  è stata inventata per mentire, ma il corpo, coi suoi moti appena percettibili, con le sue reazioni fisiologiche involontarie -  per chi lo sa leggere non mente, e in quella cassetta il corpo conferma esattamente ciò che dichiara la parola. Tutto ciò finché a un certo punto gli inquirenti cominciano a minacciare l’interrogata di coinvolgerla nell’imputazione. In sostanza l’inquirente ha messo l’Alletto di fronte alla scelta di essere accusata di omicidio o favoreggiamento, o di discolparsi scaricando l’accusa su Scattone e Ferraro. Mors tua, vita mea, è una delle frasi eloquenti pronunciate da uno degli inquirenti. A questo punto è evidente che nell’Alletto è scattato quel tipico meccanismo per cui la paura di subire un’ingiustizia porta a commetterne una reale, diciamo preventiva e compensatoria. Essa, già spossata  da ore di interrogatorio,  si è vista minacciata da un colossale ingranaggio kafkiano, più grande di lei, che per quanto innocente avrebbe potuto stritolarla impietosamente,  come accaduto in tanti casi giudiziari precedenti. Dopo questa minaccia la Alletto comincia a chiedersi  cosa vogliano i giudici da lei – Bisognerebbe sapere chi è quell’altro oltre a Ferraro  - dice al cognato dimostrando  inequivocabilmente con questa frase sfuggitale incidentalmente, e proprio perciò rivelatoria: 1) di non aver mai visto Scattone nella stanza; 2)  di essere entrata nell’ordine di idee di assecondare le aspettative degli inquirenti. I giudici, come è mostrato nel video, le suggeriscono i nomi di Scattone e Ferraro, gli unici indiziati senza alibi. Non entriamo in ulteriori particolari, il video è di pubblico dominio (si rimanda al sito www.scattoneferraro.org),  ricordiamo solo che Romano Prodi, allora Presidente del Consiglio, se ne indignò in un durissimo intervento alla Camera. Due giorni dopo, 37 dopo il delitto,  la Alletto cambia versione, e da questo momento fino alla fine del processo sosterrà, con gli occhi bassi e la voce impostata, di aver visto Scattone sparare. Le corti le hanno creduto.

   Molti altri  elementi screditano pesantemente la  Alletto. Ad esempio, se veramente avesse visto Scattone sparare, non si spiega perchè non sia intervenuta a discolpare Zingale, in un certa fase del processo indagato per l’omicidio, nè perchè,  per giustificare questo comportamento, abbia addotto di non sapere dove questi  fosse all’ora del delitto,  dato che per lei sarebbe dovuto essere del tutto superfluo. Durante l’interrogatorio del video, invece, ha retto per ore a esporre la sua tesi in maniera perfettamente coerente e plausibile da un punto di vista linguistico, logico, psicologico,  evidentemente perchè si riferiva a un’esperienza reale. 

   L’altra testimonianza, quella di Maria Chiara Lipari, appare ancora più incerta, essendo stata letteralmente ricostruita dalla teste (estratta “dall’ano della mente” secondo le sue stesse parole) , sulla base ancora di suggerimenti degli inquirenti,  dopo un periodo di black-out mnemonico durato oltre due  mesi, e dopo una sarabanda di affermazioni contraddittorie. Come se il tempo rafforzasse la memoria invece di indebolirla, come se la memoria fosse un archivio di dati immagazzinati e definitivi, e non fosse,  al pari dell’immaginazione, funzione delle passioni del soggetto,  come se la mente umana fosse una struttura inerte e meccanica,  e non un ammasso omogeneo di neuroni attraversato di continuo da processi dinamici di rielaborazione degli stimoli esterni. Sugli inganni, le sviste, gli abbagli della memoria esiste una vasta letteratura, esemplare è un saggio di Sciascia, significativamente intitolato Il teatro della memoria, che analizza l’incredibile caso dello smemorato di Collegno.

 

Testimoni diabolici

A questo punto è possibile svolgere alcune osservazioni più ampie, generali e approfondite sul caso. Osserviamo innanzitutto che la Giurisprudenza vanta fra le proprie branche una disciplina detta Psicologia giudiziaria, che mai come in questo caso ci appare essere un puro esercizio teorico, o un fregio disciplinare. Secondo uno dei suoi padri italiani,  Altavilla, attraverso questo strumento il giudice dovrebbe “sorprendere la verità in un pallore, in una contraddizione dell'imputato, nella parola di un teste, nell'apprezzamento di un perito “. In questo video, più che attenta a non farsi sorprendere, la verità, almeno quella psicologica, sembrava volersi mettere in mostra a tutti i costi, ma senza che nessuno l’abbia notata per 5 anni. La questione naturalmente è complessa e delicata,  perché un giudizio psicologico può essere un giudizio interpretativo, può derivare da un’impressione soggettiva e fallace. Ci si deve fidare, dice la Giurisprudenza, dei dati inoppugnabili. Ma siamo sempre alla questione posta precedentemente, i dati inoppugnabili non esistono nemmeno in matematica e fisica, figuriamoci nel diritto,  e questo rigido tecnicismo è in realtà un falso rigore, un surrogato equivoco e pericoloso del rigore. La realtà è che non può esistere sistema giuridico che non si fondi su una psicologia implicita (oltre che su una filosofia, su un’etica, e un estetica), perché il giudizio è parola dell’uomo sull’altro uomo, perché umano è il giudice, umano l’imputato, umana la vittima, umano il testimone. E  quel che eccede, esubera nell’uomo dall’animale, è semplicemente e soltanto la psiche, ovvero un sistema di reazioni che non ha nulla di  meccanico e lineare. Nel caso in esame,  tutti hanno fatto psicologia, ma una  psicologia rudimentale proprio perchè inconsapevole: la pubblica opinione quando ha supposto in base al comportamento controllato di Scattone che fosse un cinico, gli inquirenti quando hanno cercato di calcolare delle reazioni emotive nei testi (ma, è probabile,  ignorando Lacan, secondo cui  l’inconscio è il discorso dell’altro invertito), i testi quando hanno temuto le prevenzioni dei giudici, i giudici quando hanno creduto alle prime e non alle seconde deposizioni di Liparota, e alle seconde ma non alle prime della Alletto, e così via, fino al legislatore che ha stabilito le condizioni che rendono attendibile una testimonianza.  Dunque il problema non è negare una psicologia, ma, consci della sua imperfezione, approssimarla  quanto più possibile alla realtà.  Bisogna insomma prendere atto della necessità che ogni giurisprudenza  vada adeguata da una parte alla nuova struttura psichica  dell’uomo che è giudicato, dall’altra alla nuova conoscenza dell’uomo che deve giudicare (che spesso è peraltro semplicemente un giovanotto che ha vinto un concorso e ha fatto un paio di anni di tirocinio), consci del fatto che  l’inadeguatezza attuale si va divaricando sempre più man mano che la psiche umana si fa complessa e  stratificata – incrinata e complicata dal progresso della  conoscenza, o solo dal trascorrere in sé del tempo, che ne approfondisce incessantemente la memoria storica e culturale. Tutto ciò riguarda particolarmente il problema delle testimonianze, della loro attendibilità, della necessità dei riscontri, e dei rischi  del  pentitismo.

    La menzogna non è certo una novità nell’universo, dato che la sua origine risale alla caduta degli angeli dal Paradiso e dunque all’esistenza del  diavolo (dia-bolos in greco significa appunto calunniatore).  Tuttavia  mentre le scienze umane hanno evoluto meccanismi estremamente sofisticati per smontarla, non è stato trovato un modo efficace per trasferire e applicare queste conoscenze nelle discipline giuridiche.  La giurisprudenza sembra fondarsi sul presupposto che la menzogna sia una specie di incidente di percorso della parola. La menzogna, invece, o più precisamente  l’opposizione fra menzogna e verità, fra diabolos e symbolon, è intrinseca alla parola stessa. In qualche senso è la possibilità stessa dell’individualità, di un io separato dall’esterno, che si fonda sulla possibilità di mentire, di filtrare il mondo escludendo l’altro attraverso una rete di omissioni e  rimozioni . E così anche lo strumento giuridico della testimonianza, che viene adoperato così meccanicamente dalla giurisprudenza, è intriso di questa ambiguità. In altri termini, il diritto fa per propria comodità un uso fisico, materiale della testimonianza che non è tecnicamente possibile, trattandosi di  un prodotto umano, incerto, che non ha la controllabilità dei materiali rigidi ma è fatto della sostanza molle e inaffidabile della psiche.

 

I percorsi dell’errore

 

D’altra parte, se la consapevolezza culturale di queste problematiche è un approdo in definitiva recente delle scienze umane,  ai giudici sembrerebbe da imputare in molti casi  anche l’ignoranza più grossolana di quelle descrizioni empiriche dell’errore che sono da sempre patrimonio della cultura. Gli esempi sono innumerevoli, dai processi a Galileo o a Bruno, alle analisi di Zola, a quel capolavoro misconosciuto che è la Storia della colonna infame di Manzoni, fino alle osservazioni di Sciascia sul caso Tortora. Quel che emerge da questi testi è che i percorsi dell’errore giudiziario sono sempre gli stessi . La ricerca affannosa del colpevole, dettata da ragioni di salvaguardia del prestigio giudiziario, in senso personale o collettivo,  o più oscuramente dall’aggressività latente verso l’altro uomo, la pervicacia dei giudici nelle proprie convinzioni iniziali;  la testimonianza viziata dal ricatto psicologico, dalla paura, o semplicemente dalla suggestione e l’istinto di imitazione di quella specie gregaria che è l’uomo; la difesa di lobbies e gruppi di potere a scapito di altri più deboli,  i pregiudizi ideologici,  la rete di vincoli giudiziari troppo stretti, e le colleganze fra giudici e pubblici ministeri; il difetto di immaginazione della giurisprudenza, il tecnicismo, il formalismo procedurale; fino ad altre più oscure e sottili,  come quella specie di assimilazione kafkiana fra colpa e imputazione, per cui l’accusato viene  automaticamente ritenuto colpevole, e confermato tale dai meccanismi della selezione positiva; i torbidi odi o semplici ma altrettanto micidiali antipatie, spesso aventi ad oggetto il debole o il diverso, non di rado l’intellettuale, comunque colui in cui non ci si riconosce. E’ strano che dei giudici coscienti quanto ci si aspetta da loro, non riconoscano questi meccanismi quando essi si ripresentano, è strano che in un caso come quello di Tortora,  non si siano posti, come fece Sciascia, quel ragionevole dubbio in presenza del quale la costituzione impone l’assoluzione dell’imputato. 

   Certo, giudicare, ius dicere, dire il giusto, è difficile, è porsi al di sopra dell’umano essendo uomini, e non per nulla è funzione e competenza che è sempre stata delegata in ultima istanza alla divinità. Proprio perciò, essendo uomini,  sembra che non ci sia altro modo per approssimarsi a una giustizia ideale,  che l’essere consapevoli della nostra limitatezza e fallibilità, e dunque imparare a fondare il giudizio in quella sua alonatura metafisica che è il dubbio, a dubitare prima che a giudicare, a dubitare ancora, forse, mentre si giudica. 

 

Per una discussione ancora più approfondita delle problematiche etico-giuridiche legate alla testimonianza, rimando al mio saggio La parola giuridica e la parola letteraria, facente parte del volume collettaneo Diritto di parola, a cura di Felice Casucci, Edizioni Scientifiche Italiane 2009, adottato come testo nel corso di Diritto e Letteratura dell’Università del Sannio 2009-2010 – e rintracciabile in rete

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