domenica 24 gennaio 2021

Scritture delle femmine. Federica Sgaggio, Alice Munro, Viola Amarelli.

 L’eredità dei vivi

Di Federica Sgaggio mi ha parlato zia Anna, perché è una mia cugina di secondo grado, ma se ne scrivo è perché leggendola mi sono subito reso conto che adopera una lingua precisa come un bisturi, e che questa lingua poteva essere sommamente adatta a descrivere un oggetto inviluppato e incandescente  come una famiglia. L’eredità dei vivi parla del rapporto con sua madre Rosa, racconta la lotta per la gioia e il piacere (felicità è un termine astratto e indefinito che l’autrice scansa) di 2 donne unite da un patto di ferro. Questa storia innanzitutto non è inventata, e questo dà forza, spessore e prospetticità al racconto. Rosa e Federica sono 2 combattenti cordiali, la madre combatte all’arma bianca, la figlia di fioretto, ma ben affilato. Il nemico contro cui si scagliano

  - il nemico da Giobbe a Leopardi a Genet è sempre quello - è l’ingiustizia, la casualità e caoticità crudele del mondo, che ha assegnato alla madre la parte di terrona intemperante nel Veneto benpensante del dopoguerra, e che travestito da Errore nel reparto nurse, ha guastato il meccanismo biologico del figlio, quello che lo fa funzionare normalmente, e ne ha fatto uno stuporoso,  un diverso, quel che si dice un handicappato. Rosa è un’annamagnani che ha acquisito coscienza politica, sta per svenire quando vede Guernica al Prado, è sessuofoba per dis-educazione ma il suo sguardo insieme materno e asciutto benedice con indulgenza gli sfoghi sessuali del figlio, combatte per l’abolizione delle ghettizzanti classi speciali per handicappati. Nell’era della retorica, dello spettacolarismo alla barbaradurso (“gronda umanità da tutti gli artigli”, avrebbe detto Giorgio Bocca) e del politically correct ipocrita, la sua filosofia crudele, che paradossalmente nasce dall’amore, la dovrebbero apprendere tutti.  Federica, prima bambina permalosa e linguacciuta, che incenerisce chiunque attenti alla sua dignità e alla sua indipendenza, poi diventa giornalista e scrittrice, e rivendica il suo diritto alla vita. La sua ironia elegante, chirurgica, sartoriale non fa grazia a nessuno di convenzioni e luoghi comuni, descrive con la stessa impassibilità straniante le bave dei “colleghi” del fratello - gli altri bambini del “circolo della sfiga” - e il doloroso amore di cui ne fa oggetto, la “poverinità” della sua condizione che ritorce contro gli sguardi compassionevoli a scuola e il complesso rapporto col padre . Chiunque “tocchi” la famiglia è fulminato, l’alleanza con la madre, viscerale, cieca e pregiudiziale,  è l’unica possibile difesa dal mondo, è un monolite compatto e inattaccabile.  In qualche punto ci si pone dubbi sulla coerenza e sostenibilità della difesa del figlio da parte di Rosa. Ma la questione – quella del rapporto fra l’abile e il disabile – è talmente decisiva e profonda,  che anche questi dubbi sono un’utile provocazione.

Fra la pellicola (il culto dei vestiti) e il nocciolo inespugnabile (la morte, la morte nella vita che è la malattia, il valore della “norma”) della realtà, la lingua di Federica Sgaggio apre squarci, tagli che la ispezionano, che sezionano il corpo vivo del racconto. Federica ha una lingua aderente ai neuroni, che riveste ogni ondulazione e moto psichico come una pelle, e riesce a una disinvoltura, fluidità e felicità stilistica che non è azzardato apparentare al sommo modello della Ortese. La copertina e la nota legale in esergo (ogni riferimento a fatti ecc.) parlano di un romanzo, ma il racconto ha in realtà l’esattezza di un resoconto burocratico – al massimo si può parlare di autofiction.  Una volta l’autore doveva fingere che fosse vera una storia inventata, oggi deve fingere che è inventata una storia vera. Pudore, necessità narrative, esigenze commerciali... non approfondiamo. Il dolore degli uomini è vero, la loro provvisorietà è vera. Non hanno senso, ma la scrittura le allinea nella direzione di un senso.

Federica Sgaggio, L’eredità dei vivi, Marsilio 2020

 

Perché non leggo romanzi contemporanei

Perché i racconti di Tolstoy mi sembra che avevano senso e quelli di Alice Munro no? perché mi sembrano fatti di una sostanza plastica, inconsistente, che si sfalda?

Perché quelli di Tolstoy raccontavano storie, quelli della Munro eseguono storie. Perché Tolstoy le raccontava quando ancora non sapeva che quelle storie sarebbero diventate letteratura. Allora erano scrittura. Erano un espediente per dire le cose.

Prendo una sua raccolta, in quarta c’è perfino un elogio di Citati, e uno di Margherita Oggero che definisce il racconto Quello che si ricorda “il più bello fra i bellissimi”. Lo leggo per verifica. Non ne seguo una riga, mi si sfarinano sotto il cervello, non credo a una parola. In particolare non credo ai nomi. Questi personaggi, sorgono dal nulla, già con un nome. Ken entrò nella stanza ecc. - già questo li rende ectoplasmatici e antimaterici. Nessun personaggio regge il nome, forse nei romanzi contemporanei bisognerebbe usare una kafkiana iniziale o dire: un giovane, uno, una persona. Ma ovviamente, tirato via il nome, se ne cade tutta la storia, per cui si dovrebbe dire: un fatto, qualcosa, dei fatterelli, o usare una locuzione come: credete a me, una persona fece delle cose. Certo poi non lo comprerei un libro così.

Per fortuna l’ultima pagina è scritta molto bene, mi spiego almeno perché sia letta e apprezzata da tante persone di gusto e abbia vinto pure un Nobel (ma io i premi li considero un titolo di demerito...). La M. ha sicuramente grande padronanza della lingua, capacità di organizzare bene il racconto. Ricordo coscienziosamente a me stesso la definizione di Paul Ricoeur, secondo cui il racconto trasforma il tempo in tempo umano. Ma per la verità mi sembra che oggi questa funzione la svolga con molta più efficacia e potenza il cinema. 

E comunque non è questo per me il senso della scrittura, questa è solo letteratura, cioè un esercizio di destrezza, l’ hobby di una signora che ha appena finito di fare il giro di telefonate alle amiche e di fare shopping compulsivo al supermercato. La vera scrittura è scritta male, può diventare letteratura solo suo malgrado, se è riconoscibile come tale è già compromessa, è già disposta nell’aspettativa del lettore. Il romanzo oggi mi fa l’effetto dei nomi dei cani, che hanno un suono ridicolo, perché incollano uno schema antropico al corpo ispido e selvatico dell’animale. O a quei ristoranti che si chiamano: Antica pizzeria cippo sbafoni. E’ evidente che l’aggettivo è posticcio, è una trovata di marketing,  perché nulla nasce come antico. Antico è diverso da anticato, come scrittura è diverso da letteratura. Anche: ho visto ora un bel documentario su un falsificatore di Giacometti, che creava altre opere col suo stile e è finito in galera. Beh, in letteratura si può falsificare impunemente, il plagio è indimostrabile. Ci sono milioni di romanzi scritti tutti nello stesso stile, di chi era? Tutto il romanzo contemporaneo, forse esagero, ma mi sembra un falso non perseguibile. 

 

Graffi e scarabocchi di Viola Amarelli

Viola Amarelli si è impossessata definitivamente della sua lingua, e nella sua ultima plaquette,  L’ indifferenziata,  conferma la sua vena ironica, colta, sofisticata, capace di straniare e insieme mordere la realtà utilizzando la griglia sapiente delle parole. Le parole di Viola, desuete, tecniche, plebee, celestiali, antiquate o congetturali sembrano tutte parole che non significano più il loro significato, che non stanno per aliquo, galleggiano in una sospensione aerea o cartacea, assolte dal mondo, e riescono così a una somma eleganza, a rappresentarlo nella sua natura enigmatica, ontologica, vorrei dire caotica, ma in realtà, appunto, indifferenziata. Accede a quel continuo che, secondo René Thom, gode di un primato ontologico rispetto al discontinuo, ma lucidamente, impassibilmente, con la pura forza di una lingua disincantata e indifferente.  Se ordinariamente l’analisi risolve la sintesi, in questo caso la produce. Le parole ritagliate, precisate dal brusio dei fonemi, si dispongono naturalmente a rappresentare l’universo e disperso mondo.

lei prende i pensieri, li spezzetta, li raggela

e poi li e-dita

L’Indifferenziata è il sacchetto che periodicamente dobbiamo conferire sotto casa, è uno di quei termini tecnici e vagamente irreali che ci sono diventati familiari, come lactobacilli, pixel ecc. e che, dispersi nel nostro linguaggio, si depositano poi nella sua poesia; è lei, il suo ego lieve increspatura del continuo prima che si stabilizzi in una forma (la “letania delle forme che si informano”), ma è anche quel cumulo, quella discarica estesa di immondizia eterogenea e insensata che è diventata la realtà... insomma è un simbolo globale e stratificato.

voi, così identici a noi

inventare pronomi migliori

prima o poi

Voi e noi ci distinguiamo solo per il labile tratto oppositivo che commuta la nasale in labiodentale – per l’impercettibile spostamento del flusso aereo da naso a bocca -  ma strutturalmente ancora meno. Cavalli Sforza parlava di “noismo”, come di un tratto della contemporaneità, che apparentemente supera l’egoismo, ma in realtà ne è un estensione basata sullo stesso principio, sostituendo la contrapposizione fra ego e altro con quella fra noi e voi. Viola Amarelli propone “pronomi  migliori”, qualcosa in cui sia integrato e significato il senso di identità. Sarebbe bello, vedremmo i migranti attraversare le nostre terre come gli sconosciuti uccelli del cielo – come già si auguravano gli antichi testi mesopotamici – ma la clausola prima o poi, la comicità della rima, la genericità temporale della formula, velano di ironia la proposta.  Quel che è certo, nell’attesa messianica di una nuova cultura sociale, è il “voinoi all’ammasso”  che registriamo  quotidianamente in tv, sul web, sui social... un voinoi che non è una fusione, una confusione e una dislocazione, ma un semplice e banale incollaggio, una puerile addizione, un’emulsione che non trasforma intimamente e chimicamente i componenti.

Infine, il commiato che apre a ciò che io chiamo il non-linguistico:

come che sia, scontando l’inevitabile del limite

non un granché

ma prova almeno a dirla, prova

la cosa che non è

La cosa che non è, (non) è dunque più del dire che la dice, che non è un granché. Ancora prima, ancora più indifferenziato dell’indifferenziato, c’è qualcosa da cui muove e a cui muove la poesia.

Viola Amarelli, L’indifferenziata, Seri editore 2020

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