sabato 10 dicembre 2016

cos'è per me il rock

au moral comme au phisique, j’ai toujours eu la sensation du gouffre, non seulement du gouffre du sommeil, mais du gouffre de l’action, du réve, du souvenir, du desir, du regret, du remords, du beau, du nombre, etc.
J’ai cultivé mon histérie avec jouissance et terreur. Maintenant j’ai tojours le vertige, et aujord’hui 23 janvier 1862, j’ai subi un singulier avertissement, j’ai senti passer sur moi le vent de l’aile de l’imbecillité.


ciò che accade, e che sarà accaduto... ciò che accadde, e rivela che ciò che accade sarà accaduto... e cioè annientato, smaterializzato, abolito... è qui l'abisso... porta romana, i buoni-pasto, l'arista... lo lascerò là, per terra... è lì per terra
 
 
cammino nella città degli uomini. un millimetro dopo la mia pelle, c’è il precipizio,
ma inconsultamente galleggiano in questa sospensione i membri della specie umana, o meglio le membra, perché sono una bestia dissociata, tenuta insieme dai filamenti invisibili, d’aria che vibra e tracce ritenute nei supporti temporali, della lingua (molto più allentato l’organismo “piccioni”, qua e là scagliati dall’elastico delle loro traiettorie) .

barcollo... mi aggiro a balzelloni nello spazio vuoto, supero a ogni istante il precipizio dell’aria trasparente attraversata da fasci di luce, dall’altra parte altri uomini, altra conglomerazione da macelleria di tessuti differenziati, altro accrocchio funzionante e agile di milze bulbi oculari livree lisce nevroglia, ciascuno emittente lingua, senso, enigmaticamente compartecipi di una bolla di senso. tutti a termine, tutti affondati nella sostanza del tempo, tutti insediati nella pasta solida dell’istante come se fosse qualcosa di reale e oggettivo.  

 

sono in uno stato di amputazione irrimediabile. lo spazio, questi centimetri dal mio polpaccio al mobiletto, sono una perfetta immagine della nostra condizione precaria. un millimetro dopo la pelle, c’è il precipizio. perciò tutto l’ingranaggio gira, a vuoto. confonde il vuoto, lo intorbida. è questo che ha capito l’eroe, il medico, il prete. viviamo a testa bassa, non ci è permesso neppure guardarci intorno. 

 
noi costruiamo una struttura di tempo, l’io – fatta dei piccoli oggetti, delle azioni rifatte una sull’altra, delle parole, delle case e tutto ciò che facciamo e produciamo – all’interno di questo piccolo tempo di cui disponiamo. ci arrabbattiamo....ci ingegniamo con questa poca cosa che è la vita...questa muffa sulla pellicola esterna del pianeta, queste 4 variazioni del nostro destino rispetto alla linea statistica....

 
il tempo fa apparire e scomparire il mondo...il futuro si materializza, il passato si disintegra... il mondo SPARISCE e dunque non era materia... era luci, era sogno o segno... e altro ne appare, ma non è mio... io perdo il mio e guadagno una chance...


bisogna terminare il tempo. esaurire il tempo, e uscire dal tempo. arrestare l’artificio, cadere nell’attimo profondo. chiudere il tempo. sferrare l’ultimo secondo. eseguire l’atto prima che ci esegua la morte.

 
il presente è vuoto, tutto ciò che conta è il passato. il presente conta meno, perché contiene meno futuro. è il passato che è carico di tempo, di vita.



la pallottola frastagliata, sfrangiata, di quella sera del 77 nei cessi della gil (raffaele l’anarchico che suonava il sax, i zozzi*, io e altri più giovani che improvvisavamo percussioni, la gente che entrava e usciva... ma d’altronde non è questo il punto...)... per questo fatto che è così lontana, si raggruma, si raddensa, si fa massa. è solo il passato che conta, il presente non ha solidità, peso, consistenza. questo che accadde, è materiale. tutto ciò di cui siamo fatti, è questo passato. tutte le filosofie e le visioni che negano questo, non possono procedere.


in quella vita, ci prendevamo l’aperitivo davanti al bar
in quella vita io, da bambino, vedevo quegli acari rossi sulle rocce
in quella vita io una volta lanciavo in aria la neve
in quella vita c’era la politica
in quella vita, avevo spesso voglia di cucinare il pesce per qualcuno
in quella vita, regalammo a nonno il disco “il cacciatore” di fiammetta (all’inizio fischiava)
 


tutto il passato mi rovina addosso.
io non posso fare a meno del passato, perché ne sono costituito, molecolarmente composto.
il passato è là, è accaduto e resta, e si è consolidato per sempre.
il passato ci infligge a ogni istante il suo schianto, il suo sfascio.
quanto più distante e irrecuperabile, tanto più lancinante.
io sono massacrato da stringhe e concatenazioni di passato.
ah, certo, baudelaire è elegante e io patetico.

nota *: i zozzi erano un gruppo di proto-hippy con cui talvolta improvvisavamo musica, primo nucleo degli 'nciarma jazz, formazione che oggi produce jazz di qualità

2 commenti:

  1. lo spazio a precipizio oltre il limite della pelle, distanza incolmabile a meno di accettare di cadere e con/fodersi col vuoto, m'ha ricordato i paradossi di Zenone: hai presente Achille e la tartaruga, la freccia e il bersaglio? (o non hai presente, anche perché il presente è vuoto?!?!). mmmm... e m’hai pure suggerito (grazie!) un buon soggetto per un racconto surreale in cui la polizia fa irruzione in casa di un vecchio spacciatore d'attimi per arrestare il tempo. magari un giorno lo scriverò, prima che il tempo chiuda. poi chettidico, non so, probabilmente hai ragione: abbiamo troppe pretese, per essere solo poco più d’una muffa sulla pellicola esterna del pianeta. spesso uso un’immagine simile (o forse non troppo simile, ma tant’è), tipo, come recita il nanoforisma 27 “la vita è un tumore della materia inanimata a guarigione spontanea”. vabbè. basta sennò mi scoppia la bolla di senso.
    : ))

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  2. i paradossi di zenone... sono il mio pane, spesso indigesto... l'idea di un racconto su uno spacciatore di attimi mi sembra buona... l'immagine della vita come una muffa del pianeta per la verità l'ho "presa in prestito" da valery... va bè, rubata... ma si sa che la scrittura è furto, nessuna parola ci appartiene...

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