mercoledì 28 dicembre 2016

firulì firulà



sto sulla cresta, sul crinale. dall’altra parte si sente un gorgoglio, uno sciabordio, un fischio.
io fischio a mia volta – come quando si ha paura – sono questo fischiare di un mondo che passa attraverso le mie cavità - le pause nella mia massa -  quest’aria che ciclo dal naso agli alveoli molli al taglio della bocca, e questo fischio è quello che resta.
 

una bellezza, una ragazza nel supermercato che manco ti guarda – perché sei per lei quello stesso strato senza spessore che è lei per te, ma piuttosto male in arnese... guarda oggetti consistenti davanti a lei, una scatola di pelati che resiste di più alla corrosione, che ha intenzione di introiettare  nello stomaco con un po’ di persistenza in più, che si trasmuterà in propri tessuti organici, in quel che allucina sia sé... il supermercato supera la merce...

una scena ricordata – ma è sprofondata nel solito abisso di tempo, e irrecuperabile...
è il tempo stesso che è questo franamento...  ti rendi conto che è il fatto stesso di essere fatto di tempo, e di vivere in equilibrio sulla sua cresta instabile, ad essere ingestibile... nemmeno questo tempo esiste, anche quello proviene da te, che però non sei nulla... sei qualcosa che accade, ma non accade nulla ...senti, però, patisci...raramente gioisci... vivi di pause, sei una pausa...   

  la città nei suoi momenti di diluzione. il caldo la rarefà. i suoi topi, i suoi occupanti, le carni mobili che circolano nelle sue cavità e intercapedini, si sono rintanati. la città vivente si è rattrappita. la città fosforica della sua luce interna – l’imbocco di un garage, la scritta rossa combatteremo e sorrideremo G. e G., le tane dei “bar”, da cui sporge un perdigiorno quarantenne, 3-4- pensionati,  frasi sul calcio, una coppia, come le attinie o le cozze sugli scogli – un cespuglio di rose sfrondate nella villa, fra cui fiammeggiano macchie rosse oscillanti... è la poca carne che trasuda dalla “città”. la città è bianca, grigia, disposta nelle sue linee dritte, antropiche, prodotto di lingua...
la foto che la fotografa, fotografa l’invisibile, acquattato dietro il foro, cioè il me. la linea, la scritta, il colore compatto e pallido, è la mia lingua, le mie linee, le mie demarcazioni – è l’ammasso roseo che ha scattato



orig- 10-7-16 modificato 28-12-16

 

2 commenti:

  1. meno male che esisti. la maggior parte della gente se in infischia delle pause nella propria massa e, davvero, non sa cosa si perde...
    che aggiungere? beh, sì, il supermercato supera se stesso, è un oltrecorpo ultrafisico, è un tutto pieno che si contrappone al vuoto delle nostre pause (in un certo senso potremmo dire che è una sorta di esorcismo: riempio il carrello per colmare le pause). o forse il tutto è ancora più complesso (quindi semplice) e un po' ci sfugge come un guizzo, come uno scatto (fotografico) condannato a una falsa partenza o a un vero ritardo.

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  2. se non lo sai, l'originale era: meno male che livio c'è... poi una metatesi e una s hanno fatto il guaio...
    vero, tutto si gioca fra false partenze e veri ritardi...

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