domenica 16 febbraio 2014

da "il piccolo sé e la piccola me"

di ritorno dai caraibi, e intanto che forse elaborerò qualche riflessione più fresca, posto l'estratto di un racconto (di nuovo fuori dai miei generi e dalla mia ideologia di scrittura) ambientato a santo domingo, scritto alcuni anni fa, e che devo ancora rifinire...

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Joaquin era un poveraccio senza arte né parte, ma aveva una certa fama nella zona come autore di canzoni, come poeta e come fotografo dilettante. La sua famosa ballata Maria Santiago y la luna,  era conosciuta in tutta la zona, ed era diventata l’inno ufficiale della fase calante delle sbornie, quel momento in cui l’ebbrezza del ron cede il posto alla malinconia e ai bevitori si mostra in un istante tutta l’inafferrabile lontananza della realtà. L’aveva scritta in gioventù,  dopo che aveva   sorpreso il grande amore della sua vita in colloquio intimo con un allevatore di capre,  al lume di una enorme e romantica luna caraibica, e a cantarla con la sua voce arrochita e flebile, accompagnandosi con la chitarra mezzo sfasciata, ancora ci si commuoveva.

Ma Joaquin aveva reagito, o forse era andato avanti in un suo mondo astratto e stralunato, il mondo della chitarra e della poesia, dopo che la sua vita nel mondo terreno era fallita. Così che la sua sensualità  potente, dilatata dalla fantasia, finiva per avere una forza maggiore di quella degli animali terrestri dotati di maggior vigore fisico e di maggior interesse riproduttivo. Joaquin non si era sposato, ma insidiava tutte le donne non tanto con concrete proposte erotiche, verso cui le caraibiche erano in generale sanamente e naturalmente ben disposte, quanto con i suoi discorsi indiscreti e impudichi, che cercavano sempre di penetrare in un punto della donna più inaccessibile che non il fondo vaginale.
Con ciò giustificava anche la sua passione per la sodomia, che egli considerava un modo di accesso più profondo al mistero femminile, dato che indirettamente metteva in comunicazione l’amante con tutto il tubo digerente, e dunque attraverso il piloro, il gastroesofago, i villi intestinali ecc. con il fegato, il sangue, i reni, la bocca e dunque il naso l’udito e la parte sensoriale del corpo. Idea in qualche modo bislacca e a sua volta delirante, ma non più di quella che si possa suggere qualche essenza dell’anima di una donna incollandosi a quell’organo predisposto alla cattura e masticazione degli alimenti che è la bocca, o anche penetrando con lo sguardo nel sistema di perlustrazione ambientale che è l’occhio. Joaquin ad ogni modo era stato subito attratto dalle peculiarità umane di Moha, e si era fissato con l’idea di realizzare con lei la perfetta fotografia dell’anima, ritraendola nuda, coi segni della femminilità neri e gli occhi neri e i capelli neri e la bocca muta e nera nella pelle nera, in una notte senza luna. Avrebbero dovuto emergere dal nero solo il bianco degli occhi e una piccola macchiolina bianca che ella aveva sotto l’ombelico, ma la realizzazione di tale opera era evidentemente difficile per ragioni tecniche, e dunque richiedeva sempre incessanti, continue e mai risolutive pose, cui Moha si sottoponeva con pazienza decrescente. Aveva dapprima faticato a convincerla della necessità di posare, non tanto per ragioni religiose, perche il cattolicesimo della donna era assai elastico, istintivo e intermittente, ma perché ella aveva una profonda renitenza, come molte haitiane,  a farsi ritrarre in fotografia - nuda o vestita -  convinta che rubando la sua pelle ci si fosse appropriati delle sue luci, ovvero di una parte consistente di sé. E forse nella fattispecie sentiva che se Joaquin avesse realizzato la fotografia perfetta, si sarebbe davvero appropriato della sua anima, e che lei si sarebbe dissolta nel nulla come in uno dei diabolici riti che si praticavano dalle sue parti.   Per convincerla aveva finito per prendere la strada apparentemente più difficile, passare attraverso di me che si sospettava fossi il suo amante. E aveva di fatto così sfondato una porta aperta, perché io avevo un segreto desiderio di condividere quell’oggetto nero e denso, quel nucleo oscuro della materia, con un altro spirito astratto, e avevo forse bisogno di esibire in Moha quel sentimento che tenevo così gelosamente nascosto in M. . L’ avevo dunque convinta, o meglio le avevo ordinato, perché lei comunque era incapace di avere una volontà propria e di resistere a un comando impartito con autorità da un uomo, a prestarsi agli esperimenti di Joaquin, ma la fotografia non veniva mai bene, mai perfetta. Una volta veniva tutta nera, e dunque si poteva confondere con qualsiasi altra cosa che non fosse l’anima, un’altra, più spesso, veniva il contorno di un fianco troppo illuminato, o il palmo chiaro della mano visibile, o addirittura, anche se il risultato si era avvicinato sufficientemente al progetto, Joaquin sosteneva che c’era stato il rumore di un autobus o il passaggio del vento o un mugolio di Moha a disturbare la foto, che quel rumore si vedeva nella foto e che era tutto da buttare. Una volta buttò una foto addirittura perché sosteneva che si era sentito il rumore del passo del gatto. Si consideri infine che con la sua povera attrezzatura ci voleva molto tempo per scattare, sviluppare e stampare la foto, e si capisce come mai in questa impresa fossimo impegnati tutti e tre per i lunghi anni necessari a far sorgere un’amicizia. Per di più il progetto di quest’impresa irreale aveva creato fra noi una complicità e intimità tale, che io e Moha  facevamo liberamente l’amore davanti a lui, e di fatto il rapporto era diventato a tre, anche se lui non sapevamo bene perché non partecipava alle fasi più ginniche e meccaniche degli incontri.

Dopo un po’ misi Joaquin al corrente anche della natura del rapporto che mi legava ai due cloni, progetto che naturalmente non lo scandalizzò e lo trovò anche comprensivo, anche se lui sosteneva che non sarebbe stato capace di fare lo stesso con la sua Maria.
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3 commenti:

  1. "l’inno ufficiale della fase calante delle sbornie" è una perla.
    "che egli considerava un modo di accesso più profondo al mistero femminile", qui invece non so, visto che il bucodiculo non è un carattere sessuale né primario né secondario, quindi, perdona la deformazione professionale da medico, ma mi sono chiesto perché "femminile"... semmai al mistero "dell'essere umano" che in effetti è fatto di tubi (ci ho scritto un racconto, da giovine, ma anche adesso non ci capisco un tubo...). comunque mi rendo conto che essendo un'idea che si è fatto joaquin dovresti chiederlo a lui e non so se è così facile visto che vive a santo domingo e non l'hai più rivisto da un bel po' d'anni.
    : ))
    venendo al racconto in generale, non so cosa intendi per "ideologia di scrittura" (tranne casi limite e molto intellettuali, difficilmente lo strumento mi diventa fine, per quanto sia fine) ma il messaggio arriva e la materia è buona (anche se, almeno in questa sezione, mancano completamente i dialoghi e volevo sentire la voce un po' roca di joaquin bestemmiare il passo del gatto). intrigante soprattutto il filo dello sragionamento che lega il corpo nudo di moha quasi totalmente aggettivato di nero e il fissarsi fotografico dell’anima nel lampo di luce del flash. il nucleo polposo del senso sta tutto nella *misura* impercettibile che abita il punto di flesso tra l’umanità del “tutto meno qualcosa” e l’assoluto incorporeo e astratto del “tutto” (id est, in altre parole tra l’anima-le e l’anima, che ovviamente non esiste). non bastasse, le interferenze di canale sensoriale contaminano la modalità visiva della foto (autobus, vento, gatto, mugolio) e anche qui, allegoricamente, cogli benissimo l’impossibilità di delimitare l’irreale che abita la nostra immaginazione (cosa che possiede un substrato neurologico dimostrato, visto che la corsa delle fibre nervose dalla periferia ai centri di elaborazione corticali “sporca” l’informazione sensoriale integrando tra loro i diversi sensi e non solo).
    cheddire ancora? che ti ringrazio per aver condiviso (la tua scrittura è particolarmente ricca), ma che mi dispiace sempre quando viene pubblicato un “estratto” di un racconto perché è come se staccassimo lo stomaco o il fegato o i reni o un apparato sensoriale dal corpo, perdendo la visione d’insieme, la fisiologia del corpus del racconto che considero un modo di accesso più profondo al mistero della affabulazione…
    ok, sei autorizzato a gridarmi dietro un sentito “vaffabulazione!”, non mi offendo mica.
    : )))
    (occhio, refuso: "se la il risultato"; "e ci capisce")

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  2. ah ah, mi diverte che sei medico, con tutte le combinazioni incongrue che inventi nelle tua foto...a proposito, bello il testo di giu di lì...

    http://copylefteratura.wordpress.com/

    le tue osservazioni sono al solito pertinenti... sulle teorie di joaquin... senza averlo letto riecheggiava klossowsky... sui dialoghi, individui un punto critico... questo racconto, che intero è anche lunghetto, e non so se sarà il caso di pubblicare qui, è astrattissimo, troppo... ma io nno sono un narratore, uno che racconta... terrò conto cmq dell'osservazione visto che sto rivedendo...
    refusi corretti...

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  3. se tra il te di ora e il te di allora ci passa un'ideologia non più tua, come tu affermi, suggerirei per questi transiti haitiani un titolo di sicura presa, mica-io. buono il passo del gatto.

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