mercoledì 14 novembre 2012

condizioni del corpo livio borriello

la mia scrittura è fuori dal gioco, questo non c’è dubbio.... fuori dal gioco della scrittura volta al successo, e al commercio di sé, ma anche fuori dal gioco della scrittura di qualità... è fuori dal gioco della letteratura, insomma. questo potrebbe dipendere dal fatto che gioco male – che perdo – da una mia inadeguatezza insomma – ma anche dal fatto che non gioco – diciamo allora da un volontario non adeguamento. naturalmente la mia ipotesi – l’ipotesi che la mia convinzione sia affidabile – è la seconda.
ebbene, che io non giochi, può essere a sua volta un difetto, ma anche, diciamo così, una reazione a un’ideologia dominante del gioco, a una fase sociale in cui si gioca troppo, in cui la vita e l’esistenza si giocano, e non si vivono e esistono. certo, ci sono almeno 3 grandi giocatori – dostoievski, landolfi e de sica, per restare nella letteratura -  che mi contesterebbero: questo è il bello.

che rivendico, o magari recrimino, in sostanza? che la mia scrittura riduce al minimo la componente agonistica, ludica e feticistica – implicite a ben scavare in ogni scrittura di qualità, o meglio in ogni scrittura la cui qualità sia riconoscibile e misurabile - e nasce da una condizione del corpo, che poi suppongo corrisponda a quelle di altri corpi e dunque a un’istanza sociale. che in virtù di ciò, quel che c’è di essenziale in essa ha luogo fuori dal testo, prima e dopo il testo, nelle tracce, nei solchi (anche quelli solchi di linguaggio, certo...) in cui esso defluirà, e negli effetti che esso produrrà, o più ampiamente nelle sue "ripercussioni". 

la condizione del corpo da cui parto è questa. io avverto in maniera attenuata i rapporti di discontinuità fra le cose. mi percepisco come un addensamento della viscosità dell’aria, avverto continuamente la pressione osmotica del mondo che mi circonda. il confine frastagliato e sfrangiato della pelle che mi isola in qualche modo, non mi sembra che un sottile e convenzionale diaframma  fra settori di un unico organismo. sbavo da un punto all’altro, mi proseguo con i fiotti gassosi che pompo e espello, con la luce che rifletto, con ogni atto d’esistenza, e soprattutto con le protuberanze e emanazioni fonetiche che emetto, che rilascio, che traccio, di cui dissemino il mondo, in qualsiasi spazio che mi circonda, e ancora di più viaggio nei neuroni e le coclee e uvee e magazzini di memorie degli altri addensamenti che mi assomigliano, o meno.
 
la mia scrittura dunque evita sempre di essere un gioco di destrezza, ma si muove sempre nella direzione del riprodurre questa condizione. in sostanza cerca di sfocare il mondo (come faccio nelle fotografie), di arretrare la soglia percettiva fino al punto in cui le cose si confondono leggermente, si impastano, si risolvono una nell’altra. nasce da un’intenzione fusionale, amorosa, e in questo senso politica, se ogni angoscia è angoscia di separazione, se ogni sofferenza individuale o sociale ha origine in qualche modo da un eccesso di definizione che separa le cose che sono da quelle che non lo sono, e se è corretta l’ipotesi che le attuali condizioni sociali ci permettono di allentare quella soglia di attenzione così elevata che ha consolidato le nostre correnti abitudini percettive. non può essere che la scrittura a verificare tutto ciò, a esplorare nuove abitudini e posture sensoriali, a sistemarci in nuovi punti di vista – che è quel che accadde quando la scimmia trovò il punto di vista dell’uomo. e la scrittura che non ci prova almeno, che si accontenta di riuscire, di esprimere, di piacere, di consonare, di dire, mi sembra che venga meno alla sua funzione più radicale e più decisiva. 





post-riflessioni sul gioco
immagino cosa avranno pensato alcuni miei amici, difensori a spada tratta della giocosità, ad esempio francesco forlani, gabriella giordano,  grazia coppola o roberta durante, leggendo queste righe.... chi mi conosce sa che io sono prevalentemente diciamo un interiore, un introverso, e che in generale sono piuttosto disinteressato al gioco e al giocare...quasi sempre mi annoia, in verità....tuttavia io sono fortemente per la vitalità, per tutto ciò , ad es. l'eros, l'arte, o l'umorismo o le forme di cultura o anche di esistenza "bassa", che la manifesta... il problema allora è se il gioco sia veramente una manifestazione tanto importante della vitalità, o sia invece spesso un differirla, un circoscriverla, uno stemperarla nella sua simulazione... la gratuità, la follia, lo scatenamento dal necessario espresso parrebbe insostituibilmente dal gioco, è davvero solo lì che possiamo cercarlo? e cosa ci hanno insegnato allora i situazionisti?



post anticipato per ragioni tecniche. data effettiva di pubblicazione 14-11-2013

3 commenti:

  1. ma se eccedi, ridondi, fluttui, pulluli, e svii insieme alla materia di cui percepisci avverti l'eccedere il ridondare l'erompere il fluttuare, quasi tu fossi e particella e ricco (tu)tto, se insomma il solco - sonante, consonante, alto, basso - è questo dai tempi di Hammurabi e tu sei da un'altra parte a esprimere un penso-sento (o un penso-penso), non trascrivibile, non dicibile, che nel solco scrittorio proprio non ci sta, ma perché insistere con questa forma? Non è meglio fotografare un cielo, o squartare una mucca à la Hirst?

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  2. con quella che è lontana parente dell'antica parola animista, in fondo, si può percorrere bene il quotidiano delle strade, fuori da ogni racconto.

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  3. @ll'anonima (che credo di poter nominare) : ma io dico che l'essenziale sta fuori dal testo, non fuori dal linguaggio, dunque fuori dalla letteratura, non fuori dalla scrittura
    @ ale: sì fai bene a parlare di animismo... un animismo forse invertito, che parte dal togliere l'anima anche all'uomo, e poi ne attribuisce un'altra all'uomo e alle cose

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