lunedì 24 giugno 2013

DIre il non dire

versione finale pubblicata da ESI in Il silenzio del diritto, giugno 2013

 
Dire il non dire Dialettica e scambio fra silenzio e parola alle origini del Diritto. di Livio Borriello


Chi non ascolta Dio, non ha nulla da dire agli uomini - scrive Agostino (1). Ma Dio non ha bocca, non ha polmoni, non ha nemmeno l‟aria che vibrando produce suoni o parole, perché non ha realtà fisica, dunque come potrebbe esprimersi in un linguaggio umano, ed essere compreso dagli uomini?
 Dio tace. In tempi remoti, pare, si dice, è scritto, ha parlato.
Ha parlato attraverso il tramite fra Dio e gli uomini, ha parlato attraverso l‟Angelo (in ebraico, Mal‟ak - il Messaggero). Ha parlato attraverso il fuoco, o le visioni, o il volo degli uccelli, ha parlato ad Abramo, a Maometto, agli sciamani il cui sistema neurale, eccitato e sensibilizzato dall‟ascesi o da misture allucinogene, diveniva capiente al trascendente e percepiva, o forse secerneva, parole non pronunciate. Ma da un paio di migliaia di anni, nessun suo segno ci ha più raggiunto, anche se abbiamo inviato sonde nel cuore dell‟universo per rintracciarlo. Forse è in una pausa di riflessione, millenaria, come gli si conviene... o parla in un linguaggio incomprensibile, o per bocca di emissari inascoltati... Se vogliamo dunque comprenderlo, dobbiamo ascoltare quello che non ci dice. Se vogliamo poter dire qualcosa agli uomini, dobbiamo apprendere la lingua muta che ha parlato "prima che Abramo fosse", una lingua le cui formanti non sono sagomate dalla carne del palato e gli ossi della mandibola. Dobbiamo forse risalire dal Dio cristiano, dal Dio di Giovanni, che è Verbo, al Dio biblico, agli dei delle cosmogonie orientali, agli "illuminati" e ai mistici di tutte le ere, per i quali dio è innanzitutto luce. Prima di parlare con le parole, dio parla con la luce, parla nella caligine lucente dello Pseudo Dionigi, o nel bagliore accecante in cui irrompe Mitra. La gran parte delle parole indoeuropee che stanno per dio, derivano dal sanscrito Div, luce, splendore. Dio dunque non parla, ma luccica, illumina, sfolgora. E anche nel Genesi, a significare la coincidenza dell‟udibile e il visibile, la prima parola che Dio pronuncia è or, luce. Si tratta di una luce immateriale, che spazza le tenebre dell‟impensabile e svela il mondo immerso in una visibilità primigenia e pervasiva, una sorta di albedo o fosforescenza che precede la luce fisica ed esteriore emanata dal Sole, creato solo al quarto giorno. Dio parla in quest‟apertura delle cose che è la sua luce, in questa luce che coincide col prodursi delle cose. Come le cose tutte stanno, è Dio – scrive Wittgenstein (2). La sostanza di dio, è l‟esistere stesso delle cose, e la sua forma, che è poi la sua sostanza "rappresentata" umanamente, calata nei volumi, i colori, i suoni in cui il sistema percettivo degli uomini la dispone, è la forma del mondo. Dio parla nelle cose, il libro che ha scritto è la natura. Quel che dice, non è mai detto. E non è mai detto, perché è indicibile. Compito della filosofia è limitare l‟impensabile dal di dentro attraverso il pensabile - scrive ancora Wittgenstein (3). Nei suoi lavori egli costeggia ossessivamente, girando deliberatamente e coscientemente in tondo, l‟orlo, l‟argine, il margine del pensabile, sbatte sulle forme logiche, si avventa contro i limiti del linguaggio, perché avverte incessantemente l‟indicibile che pulsa dall‟altra parte.


Ma per quella creatura di parola che è l‟uomo (il parlètre, scriveva Lacan, tuttattaccato), che esiste nel linguaggio, non solo nel senso che vi dimora, ma che ne è costituito, ha senso parlare di indicibile, riferirsi all‟indicibile, provarsi a dire l‟indicibile? Oppure, appunto, "di ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere?" (4). Cos‟è l‟indicibile? E‟ semplicemente un detto che non si pronunzia? E‟ una sorta di slittamento progressivo della parola, che non si arriva mai a afferrare? E‟ la parola proibita? Certo, il sentimento dell‟indicibile, è esperito solo dalla specie che dice, l‟uomo. Eppure dobbiamo rivendicare a questa specie un‟eccedenza, una maggiorazione rispetto a quelle animali, che non si può spiegare solo in 2

termini riduzionisti. Pur senza voler ricorrere all‟idea di un‟anima insufflata dall‟esterno, a una specie di gas animatore e motore di cui poi sarebbe arduo a sua volta spiegare l‟origine (5), e ancora di più l‟ubicazione, dobbiamo ammettere che il momento dell‟acquisizione della coscienza nella specie umana resta misterioso, impensabile, imperscrutabile, o che, come minimo, resta tale la nostra convinzione che questa coscienza esista. C‟è nell‟idea di coscienza e più generalmente alla scaturigine del pensiero un nucleo inespugnabile, un enigma irrisolto dalla scienza ma ahimè anche dalla teologia (e dalla fede che la suppone), che semplicemente rimanda il problema a un‟altra figura linguistica, a un Dio che racchiuda in sé e dunque nasconda a sua volta quell‟enigma. Noi non possiamo fare altro, probabilmente, che prendere coscienza della presenza di questo enigma assoluto e germinale , non possiamo fare altro che sapere incessantemente che il nostro agire fa perno intorno a questo enigma, e forse è semplicemente il tentativo di risolverlo. Ogni nostra passione e pensiero, tendono senza che ce ne rendiamo conto a chiarirci il senso del nostro essere al mondo, ci vogliono avvicinare a uno stato di pienezza che sarà raggiunto solo chiarificando il torbido che ne oscura il fondo. Amare un amante, generare un figlio, scrivere una poesia, comprendere una legge scientifica, stabilire una regola di convivenza, e in misura minore e forma forse degradata anche perseguire la ricchezza e il successo, acquisire importanza agli occhi degli altri, dialogare su facebook o giocare a videogame in un bar, sono tutti atti attraverso i quali cerchiamo di dare un senso alla nostra vita. Ogni nostro atto tende a dare un senso alla nostra vita, e dare un senso alla nostra vita significa infine risolvere quell‟enigma. Significa provarsi a dire l‟indicibile, significa far parlare il silenzio. Talvolta, l‟insopprimibile esigenza di dire l‟indicibile, di dare contezza umana al caos inestricabile di cui siamo intrecciati, di possedersi interamente attraverso un atto di suprema autodeterminazione esistenziale, accompagna la vita fin dentro la morte. E‟ questo probabilmente l‟indicibile, amplificato dalla tensione romantica all‟assoluto, che segnò la relazione fra Heinrich Von Kleist ed Henriette Keber Vogel, protagonisti di una vicenda tragica, e nondimeno, nelle loro stesse parole, "esultante", "gioiosa e indicibilmente tenera". Un testimone racconta che, all‟inizio della loro conoscenza, Henriette suonò dei brani al pianoforte con una tale passione, trasporto e incanto che Heinrich commentò, con un‟espressione in voga fra la gioventù del tempo: Era così bello da spararsi un colpo al cuore. Henriette abbassò allora gli occhi e restò muta per tutta la serata. Aveva probabilmente provato l‟esaltante e vertiginosa sensazione che quel che non aveva detto, perché dire non si poteva, e che aveva tuttavia in qualche modo "esistito" e vissuto, per qualche via misteriosa e arcana era stato ugualmente ascoltato, non si era perduto ma aveva trovato corresponsione in un‟altra coscienza umana. Anni dopo, pervasi forse da quello stesso sentimento vertiginoso, prossimi come in quei primi incontri all‟abisso della felicità quanto al baratro dell‟insensatezza, Heinrich e Henriette avrebbero deciso di trovare la morte assieme lungo le rive dello Wannsee. Secondi i testimoni si mostrarono, e in base alle documentazioni furono, fino alla fine allegri e spensierati, "felici come due bambini". Si scrissero, la sera prima, lunghe e inutili lettere, lunghe perché animate da una tensione spasmodica, inutili perché essi già sapevano che erano un assalto perdente a quell‟indicibile che sfolgorava in loro come un‟essenza. "...mio armonioso, mio giardino di giacinti, mia aurora, mia crepuscolo, mia rinascita, mia libertà...mia fortezza incrollabile, mia felicità, mia morte..." così inizia la lunga litania di epiteti di Henriette. Si dissero tutto, ma tutto questo era nulla perché era solo ciò che si poteva dire. Poi trapassarono direttamente dall‟esultanza alla morte, si immobilizzarono felici, sigillarono definitivamente nel silenzio, con quell‟atto supremo e dissennato, quell‟essenza a cui si erano forse approssimati troppo. 3

* Di silenzio ne è restato assai poco nel nostro mondo, che per ragioni biologiche, antropologiche, tecnologiche, si va affollando sempre più di generatori di anti-silenzio. Anche il computer davanti a cui stiamo cercando la concentrazione per scrivere queste righe, ci ricorda la sua presenza materica nel mondo con beep e lievi pulsazioni, o solo frusciando e spazzolando impercettibilmente i suoi magneti. Nel contemporaneo persino le immagini, le forme e gli spazi sono sonorizzati dalla tecnologia, talvolta in utili applicazioni come i convertitori acustici per non vedenti, o i segnalatori dei macchinari. Il silenzio è diventato una specie di disvalore, di segno di morte e pochezza, qualcosa che assomiglia più al nulla, che al vuoto, cioè un nulla provvisto di spazio e presenza, per ritornare a una distinzione di Agostino (6). Appare difficile oggigiorno stabilire un rapporto reale col silenzio come pienezza, come sostanza densa prodotta dall‟intenzione di tacere, come attenzione, come sospensione e interruzione del troppo, del superfluo, del già detto o del perfettibile, il silenzio come "campo di forze dell‟esistere puro" (7). L‟uomo contemporaneo non sa che " Chi tollera i rumori è già un cadavere", come lapidariamente sentenzia Ceronetti (8), né segue l‟invito di Magrelli a riflettere sulla natura escrementizia del rumore, che dovrebbe rendere sconveniente l‟atto di emetterlo in pubblico (9). Più che la purezza intatta del silenzio, più che la vergine tabula rasa in cui è possibile ascoltare gli impercettibili segnali che provengono dal profondo di noi stessi e dell‟altro, la nostra epoca sembra apprezzare lo sguaiato della comunicazione querula, sforzata, survoltata, quasi automatica, che la facilità dei media induce o produce. I messaggi si fanno ogni giorno più fitti, e bisogna progressivamente rafforzare il segnale per farsi ascoltare. Ma quel che c‟è di essenziale in noi, quello che attiene appunto alla sfera dell‟indicibile, e va indovinato e quasi suscitato a partire da minimi segni, "divinandolo da un fondo enigmatico e buio" (10) con attenzione amorosa e lenta, è difficile comunicarlo in questo modo. Forse, per scriverne adeguatamente, per scrivere adeguatamente, conviene spegnere il computer e tornare al tracciare felpato della penna, al lubrificato e scorrevole rotolio della sua microsfera sul foglio. Solo così "vediamo" il silenzio, lo lasciamo intridere e imbibere ogni neurone, idratare e rigenerare lentamente ogni organo corporeo. Solo così lo riconosciamo come la nostra condizione naturale, lo stato aurorale e amniotico in cui si riesce ad avvertire, o solo a rappresentarsi, finalmente, il fruscìo del sangue che gira, i tonfi leggeri dell‟incessante assestamento del cuore, lo scivolio delle nuvole, il gorgoglio e il ronzio impercettibile che fanno le cose esistendo. Solo così ci avviciniamo a quella dimensione di ascolto assoluto, di prontezza dei sensi, di permeabilità alla flebile presenza dell‟altro, di vigilanza e di benevolo agguato all‟altro, che è il presupposto, vedremo, non solo della vera comunicazione, ma di quella forma di comunicazione carsica e circolare in cui consiste il sentimento etico.

D‟altra parte, in un certo senso, fisico e biologico, il silenzio è una condizione innaturale. Esso è legato all‟assenza del movimento, al blocco dei processi che, facendo cozzare, stridere o frusciare fra loro le cose del mondo, producono vibrazioni acustiche e dunque suono o rumore, a seconda che siano più o meno armoniche. Ma la stasi perfetta, la morte dell‟universo, non esiste nel mondo fisico, perché per quanto si possano "filare" e omogeneizzare tutti gli elementi, annullando ogni tensione gravitazionale, termica, pressoria e addirittura elettro-chimica fra di essi, permarranno sempre dei differenziali di collocazione nello spazio e nel tempo, e questi agiranno da motore... insomma, non si possono
4


annullare le loro differenze e "tensioni" ontologiche. Del resto la quantistica ci conferma che questi elementi ultimi nemmeno esistono in sé, ma sono rappresentabili come una media della loro fluttuazione nella nube quantica. Ora - e se dico una bestialità valga almeno come metafora - io mi immagino che persino questo moto di fluttuazione, questo frullare di elettroni, bosoni e gluoni, da una posizione incalcolabile e inesistente all‟altra, debba produrre un qualche fruscìo infinitesimale, un frinire minimo, un ronzio come di mosche sul pezzo di carne, o come quello dei lampioni accesi a notte alta. Tantomeno, zoomando dalla scala dell‟infinitesimo a quella dell‟infinito, esiste il silenzio degli spazi interstellari. Anche se non ce accorgiamo, il sole combure in un fragore apocalittico, i pianeti stridono e fischiano lungo le loro traiettorie, e il nostro misero timpano umano sarebbe polverizzato in un istante se solo fosse impattato dal boato immane degli ammassi di nebulose che si scontrano negli spazi remoti. Il silenzio è dunque un‟astrazione come la morte, è solo rumore subliminale, o infrasuono, un fracasso che non ci riguarda, perché si produce al di sotto della soglia dell‟udibile. Il silenzio, dunque, è l‟inascoltabile. In quanto legato all‟idea di fissità, il silenzio è analogo alla fotografia, o al congelamento plastico della statua, che blocca e sospende l‟azione. Il silenzio è lo stato sospeso del mondo . La forma d‟arte perfettamente silenziosa è la fotografia: nel dipinto gridano e stridono i colori e la psiche dell‟artista, nel romanzo risuona il mondo che lo anima, nella stessa scultura la tridimensionalità impone un movimento che è inevitabilmente "acustico", per non dire del cinema. La musica è a suo modo altrettanto silenziosa, perché azzera e ricompone ogni attrito nell‟armonia, traduce la fricazione in scivolio, in carezza, in sofficità d‟onda. Ma evidentemente tutto ciò è ancora suono. Ancor più silenziosa , in tal senso, è la poesia, musica interiore, composta giustapponendo significati, e dunque ascoltabile con la vista e l‟intelletto. La parola tuttavia non tace dal punto di vista semantico, e ad ogni modo, racconta un mondo in divenire, un mondo dinamico e perciò vibratorio e sonoro. La fotografia invece blocca l‟istante, lo astrae, e dunque lo proietta fuori dal tumulto del reale, nello spazio mentale. Nella fotografia tutto è accaduto o sta per accadere, il tempo è fermo. Un‟altra cosa integralmente silenziosa è un corpo umano nudo. Gli abiti parlano, comunicano delle intenzioni , concezioni, status, emozioni. Il corpo nudo è invece la carne così come è, flagrante e contingente, senza dimensione sociale e comunicativa. Perché la carne umana nuda non sarà mai la carne animale, che è tutt‟uno coi suoi suoni e versi – sarà sempre la sostanza costitutiva del parlètre privato della parola. Che può dire un amante che si è spogliato se non: eccomi – cioè qualcosa che non è un dire, ma un mostrare? Potrà anche enumerare le porzioni del suo corpo, come fa Angela da Foligno denudandosi davanti al crocifisso, o l‟attrice Bardot nel Disprezzo di Godard, ma quell‟elenco non equivale a un discorso articolato, ma a un fotografare verbale, a un immobilizzare e eternare con le parole. La nudità, dunque, come l‟essenza di tutte le cose, è silenziosa, non parla, ma si mostra. Anche l‟incanto, l‟incantesimo che si produce nell‟amore e dall‟amore erotico, non può che aver luogo nella dimensione del silenzio. "Che nessuno spezzi l‟incanto di questo amore/ che è tanto delicato/ da lacerarsi a un solo mormorio", scrive nel XV secolo il poeta indù Vidyapati, e le sue parole, che in questo caso si riferiscono alla maldicenza, descrivono certo con esattezza la vulnerabilità dell‟eros all‟ "acustico".

Dunque il silenzio è la sospensione del tempo, in cui accadono le cose – è l‟eterno, è l‟atemporale, è, ancora, l‟indicibile. Nel silenzio il mondo si dà così come non è, congelato, fisso, pietrificato, interrotto, 5

rimandato e retroagito, e insieme come è sub specie aeternitatis, come è per sempre (ciò attiene ancora alla sfera dei valori). Nel silenzio cede l‟accadere, e riaffiora l‟esistere puro. Condizione del tutto innaturale, abbiamo detto. Eppure noi nel linguaggio comune, o in quello poetico, usiamo espressioni come: sembrava che il tempo si fosse fermato; oppure: ero perfettamente immobile ( mentre in noi si agita un turbine di elettroni, nel contempo centrifugato alle velocità stratosferiche della rotazione terrestre). Che intendiamo? Evidentemente questa condizione astratta e teorica fa parte concretamente del nostro psichismo, del nostro vissuto interiore. Evidentemente esiste un „idea-del-non-tempo- in- noi, un‟idea dell‟impossibile. Noi possiamo percepire la diacronia del tempo come una privazione della sincronia, e il suo articolarsi o fluire come un decadimento dell‟unità originaria, per dirla con Levinas, e lo spazio come una dispersione e diluizione dell‟essenza, come una sua deconcentrazione. Quest‟idea ci riporta ancora una volta al mistico e al trascendente, all‟idea in noi che esista un principio unitario della realtà, non necessariamente un creatore, ma un‟origine e termine ultimo del mondo, un assoluto e un eterno di cui il mondo sia un‟ipostasi, un‟articolazione, una secolarizzazione, ci riporta all‟idea, incontrovertibile dalla scienza, che il senso del mondo risieda fuori dal mondo, ci riporta a un‟ineludibile e originaria istanza di senso. Il silenzio, in questi termini, non è una condizione né naturale né innaturale, ma sovrannaturale. ** In realtà nell‟essere umano il silenzio non è mai un nulla, e a stretto rigore, anche dal punto di vista semantico, non esiste, perché l‟esclusione delle sollecitazioni acustiche produce sempre un naturale proliferare e lussureggiare di segni. Come fosfeni dietro le palpebre, come cristallizzazioni nel fondo delle miniere, dalla pagina vergine del silenzio fioriscono vocalizzi, fantasmagorie, ipnagogie. Il silenzio è sempre deiscente di segni, perché la mente non è mai vuota, e contiene come minimo il pensiero dell‟ essere vuota. " Quando sospendi la parola, cominci a percepire un movimento atemporale " – scrive Jiddu Krishanmurti. Dal silenzio in realtà emerge il soggetto – quell‟io che è il "vero mistero profondo" (Wittgenstein) , il vero nucleo insondabile dell‟essere. Ma non è solo questo, perché il linguaggio è sempre un fatto relazionale, che contiene già in sé il rapporto fra il medesimo e l‟altro, fra i due termini fra i quali si produce. Dal silenzio si estrae, si suscita l‟io più autentico, ma anche l‟Altro più autentico. Il segno più puro, il segno più solitario, isolato, quasi autistico, che sgorga, che erompe per pressione dal silenzio, il segno di falda, il segno artesiano, è già in sé, in quanto segno, un recipiente a due manici, una doppia elica, un codice a doppia lettura, è già in sé significante, e contiene già in sé colui che gli darà un significato, l‟ascoltatore. Dunque, se nella condizione di ascolto più autentico di sé, quello che emerge è il segno, cioè un‟entità fatta della materia dell‟altro, quella del silenzio è anche la condizione più autentica di ascolto dell‟altro. E il silenzio è nello stesso tempo la condizione di ascolto più autentica del sé e dell‟altro.

Nel silenzio l‟altro non è più il nemico, non è l‟estraneo che si oppone al familiare, non è l‟altrui che minaccia il proprio, ma è elemento costitutivo dell‟io, è il termine, il capo che sorregge la trama della nostra individualità. L‟altro precede il medesimo; il medesimo, il proprio, non può non essere una risposta alla domanda che ci precedeva, e il massimo egoismo e individualismo, in quella specie linguistica, sociale, olistica che è l‟uomo, quando è autentico, coincide col massimo dell‟altruismo. E‟ quel che accade nell‟eros, forma privilegiata, depurata e incandescente della socialità, nella quale la ricerca del massimo piacere corrisponde al massimo piacere dell‟altro, e la massima tensione egoistica,
6


alla massima propensione e pressione esterna del corpo. Nell‟eros l‟intensità produce uno stato ex-statico, di fuoriuscita dal sé, che garantisce la qualità, la verità, e dunque il valore sociale del rapporto. L‟uomo "all‟apogeo del suo essere e del suo egoismo, colmo di felicità, si preoccupa dell‟altro" (11). Ecco in che modo abbiamo rintracciato, o abbiamo posto le condizioni per rintracciare, il dire nel non dire, ed ecco in che senso abbiamo collegato il silenzio all‟indicibile, e insieme lo abbiamo considerato come un serbatoio e falda valoriale, come l‟acquifero da cui attingere la conoscenza più autentica del sé e degli altri. Solo il silenzio ci permette di accedere al sentire più radicale e assoluto, al pozzo del vero desiderio, e solo a partire dalla conoscenza di questo desiderio purificato, questo desiderio cristallino, incontaminato e "potabile", che desidera il desiderio dell‟altro, che in sé vede l‟altro, è possibile fondare un‟etica. Il silenzio, abbiamo detto, è la condizione imprescindibile dell‟Ascolto, del vero ascolto che non è da confondersi con l‟udire, col registrare, con l‟apprendere, con ogni operazione percettiva che consista in una semplice introiezione di dati. L‟udire si potrebbe definire quale un ascolto rumoroso, un ascolto che non si produce nello spazio del silenzio, e l‟ascolto come l‟udire in questo spazio, come il percepire attento che è possibile solo nello spazio assoluto e incommensurabile dischiuso dal silenzio (12). L‟ascolto è l‟udire peculiare e caratteristico dell‟essere umano, è un‟udire parlare (nel senso in cui possono "parlare" anche suoni o rumori), e dunque un udire che ha un significato. La musica si ascolta, il discorso dell‟altro si ascolta, la parola – opposta al vocabolo – si ascolta, il cuore si ausculta. L‟insignificante si recepisce, si registra, si subisce, a meno che non si ascolti la sua insignificanza in sé. E‟ solo nel silenzio, dunque, che può prodursi quell‟atto peculiarmente umano che è il riconoscimento dell‟Altro da sé, e nello stesso tempo l‟identificazione di questo non sé col sé, il misterioso movimento fermo, l‟inintellegibile operazione neurale e corporea, e poi psichica, che produce il senso di responsabilità. Questa responsabilità è insieme responsabilità verso Dio – qui inteso laicamente come significatore del valoriale, dell‟indecidibile, dell‟indicibile – verso un se stesso per la prima volta effettivamente riconosciuto, e verso l‟altro, verso 3 soggetti che infine, nella nostra lettura della frase di Agostino da cui siamo partiti, coincidono. E d‟altra parte, in che momento può prodursi la "responsabilità", ovvero la disposizione a "rispondere", a dare "responsione" (nel doppio senso di risposta e di" tributo") all‟altro, se non in quello del suo ascolto? Non ci può essere vera risposta senza vero ascolto – ascolto dell‟interrogazione incessante che la presenza in sé dell‟altro costituisce . La responsabilità è infine un sentirsi immersi in questa circolazione di parole, di presenze significanti, di sguardi e volti e carni che "dicono". E tuttavia, la responsabilità muta, segreta, solipsistica, incontrollata – ancora corporea, si potrebbe dire – assunta nel silenzio, è una responsabilità irresponsabile, è una responsabilità che non deve dar conto di nulla, è una responsabilità che non si è fatta ancora linguaggio. E‟ Etica che non si è fatta ancora Diritto. Nel segreto, ci fa notare Derrida, il massimo della responsabilità coincide paradossalmente col massimo dell‟irresponsabilità. Abramo riceve l‟ordine più incondizionato, più perentorio, più inappellabile, in qualche modo l‟ordine più legittimo , perché emanato immediatamente da Dio, e insieme più assurdo, più folle e inumano, l‟ordine di levare il coltello su Isacco, di uccidere un essere umano giovane e innocente, l‟essere umano che egli ama di più, senza nessuna ragione, almeno senza nessuna ragione a lui intellegibile. E Abramo il giusto, il legalitario, il probo, il retto, nel pieno delle sua facoltà e del suo giudizio, doverosamente e responsabilmente obbedisce all‟ordine. Egli leva la mano omicida - dunque ingiusta e irresponsabile - e sta per uccidere il figlio. 7

Abramo, scrive Derrida, "non riconosce alcun debito, alcun dovere davanti agli uomini perché è in rapporto con Dio - un rapporto senza rapporto perché Dio è assolutamente trascendente e nascosto e segreto [....] Dunque Abramo è al contempo il più morale e il più immorale, assolutamente irresponsabile perché assolutamente responsabile, assolutamente irresponsabile davanti agli uomini e ai suoi, davanti all‟etica, perché risponde assolutamente al dovere assoluto, senza interesse né speranza di ricompensa, senza sapere perché e in segreto" (13) Quello a cui obbedisce Abramo è un ordine "muto", che nessun altro uomo ha potuto ascoltare, che nessun consesso di uomini ha potuto legittimare. Un ordine che ha preso forma, che è silenziosamente attecchito, nella sfera dell‟invisibile e dell‟inaudito, un ordine che dal Dio muto agli uomini è carsicamente defluito nella sua coscienza, nel discorrere interno, nel significare silenzioso delle connessioni sinaptiche e le variazioni elettrochimiche della sua mente. "Camminarono in silenzio, [...] preparò l‟olocausto in silenzio e legò Isacco. In silenzio estrasse il coltello" – così racconta la scena Kierkeegard (14). E Derrida gli fa eco: Abramo "è nel segreto assoluto " (15). Dunque l‟etica sorta nel silenzio è la più responsabile e la più irresponsabile. Vive in questo paradosso costitutivo, soffre questo paradosso paralizzante. E‟ per risolverlo che sorge allora il Diritto, il Diritto che fondandosi nel senso di responsabilità etica suscitato dal Silenzio, sorto dall‟ascolto attento e assoluto dell‟altro, stabilisce, scrive, dice le norme attraverso cui gli uomini impareranno a dare un significato a quell‟ascolto, attraverso cui si proveranno a dare una forma visibile all‟invisibile, un dettato all‟indicibile, un senso a ciò che non aveva senso. Noi parliamo a Dio soltanto con il pensiero e il silenzio, mentre con le parole parliamo agli uomini – scrive Abelardo (16). Dunque, il Diritto, che per sua natura si dice interamente, e anzi, come la matematica, quasi aspira a consistere nel detto, è, peculiarmente, un parlare agli uomini. E tuttavia, in base a quanto abbiamo detto, quella cosa che il Diritto vuole dire la deve attingere da dio, e quindi la deve leggere nel suo silenzio. Il Diritto è in questo senso un termine medio fra dio e gli uomini. Il dire dei Diritto a differenza di quello scientifico attinge alla sfera valoriale del non detto e dell‟indicibile, ma si distingue da quello della letteratura, e dei linguaggi che utilizzano segni "aperti" - metaforici, simbolici, iconici - perché tenta di tradurlo in un detto senza residui, un detto che esaurisce il proprio dire senza alcun resto di indicibile. Non c‟è alcuna pausa, alcun vuoto, alcuna intercapedine di silenzio nel dire del Diritto. Il Diritto è interamente detto.

 

Note 1) Con quest’espressione, Agostino universalizza una frase pronunciata da Cristo: Io non ho nulla da dire agli uomini, se non quello che ascolto dal Padre mio. 2) L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, trad. it. A. G. Conte, Torino 1983, p. 180 3) ivi , 4.114, p. 28 4)Sul "silenzio mistico" in Wittgenstein cfr M.Y.Grasso, Un disegno di limitazione del linguaggio, il Tractatus di Wittgenstein, Avellino, 1999 8

5) In questo senso, probabilmente, Merleau Ponty parla del linguaggio come un aerolito (in Fenomenologia della percezione, trad. it. di A. Bonomi, Milano 2003, p. 459), e Stanley Kubrick, partendo da Clarke, in "2001 odissea nello spazio", rappresenta fisicamente il "proprio" dell’umano come un monolito di origine misteriosa. 6) cfr. Agostino, Confessioni, Torino 1966, p.122 7) E. Levinas, Il tempo e l’altro, trad. it. F,P, Ciglia, Genova 2001, p.22 8) G. Ceronetti, Il silenzio del corpo, in Scrittori italiani di aforismi, Milano 1996, p. 1254 9) cfr V. Magrelli, Nel condominio di carne, Torino 2003, p.19 10) "allà manteùetai ò boùletai , kai ainìttetai" Platone, Simposio, in Opere Vol. I, Bari 1974, p.684. La traduzione qui riportata è di U. Galimberti. 11) E. Levinas, Totalità e infinito, trad. it. A. Dell’Asta, Milano, 1996, p.61 12) cfr "Quando trovo/in questo mio silenzio/una parola/scavata è nella mia vita/come un abisso" G. Ungaretti, Commiato, in L’allegria. 13)J. Derrida, Donare la morte, trad. it. di L. Berta, Milano, 2002, p.106 14) S. Kierkegaard, Timore e tremore, trad. it. di F. Fortini, Milano, 1990, p. 21 15) J. Derrida, ivi, p.107 16) Abelardo, Theologia Summi Boni, Munster, 1939, p.355, cit. in Abelardo, Lettere di Abelardo e Eloisa, Milano 1999, Introd. p.16


da Il silenzio del diritto, Edizioni scientifiche italiane, Napoli 2013, a cura di Felice Casucci

2 commenti:

  1. premesso che le incorporee t’ontologie su Dio, di solito mi appaiono noiose quanto le dissertazioni sull’ipertrofia prostatica nel sarchiapone, qui invece mi sono abbastanza divertito. quindi tanto di cappello.
    : )
    dio come silenzioso baluginare d’assenza tra indicibile e impensabile almeno è un’astrazione lirica che, pur restando fine a se stessa, gioca in modo fine a confondere assenza e senza (o assenza e essenza, se preferisci).
    d’altro canto, con buona pace dei teologi, da un punto di vista squisitamente neurologico, la coscienza non esiste, mentre probabilmente esistono le coscienze. un po’ come non esiste “un musicisti d’orchestra”, ma “numerosi musicisti” che possono suonare in diverse orchestre.
    parimenti, non esiste né l’assoluto, se non nella parola stessa, né l’enigma assoluto… oppure è un enigma facilissimo da risolvere poiché non appena lo leggi sai cosa è: sei lettere messe in fila.
    cheddire ancora? che il silenzio elettrico (quello che auspichi “intridere ogni neurone”) è l’elettroencefalogramma piatto. e allora avevano ragione Heinrich e Henriette, poiché per la stasi perfetta non serve la morte dell’universo, bastano le rive dello Wannsee.
    invece mi sembra intrigante l’idea del “ronzio impercettibile che fanno le cose esistendo”, quasi fosse un’eco del big bang (hai presente? dio che quella mattina esce dicendo “vado a comprare le sigarette” e lascia in universo il pentolino del latte sul fornello del gas acceso). a patto che i ronzii delle cose includano naturalmente anche noi e le nostre inesistenze.
    : )
    bello dunque il riconoscimento del silenzio come “astrazione”, come pure astrazione è la morte, ma anche, inevitabilmente, il ronzio…
    : )
    poi, così d’istinto, mi sembrano più divine le dissonanze rispetto all’armonia, ma magari è solo perché da giovine suonavo la chitarra elettrica in un gruppaccio punk.
    il delirio successivo, invece, “il silenzio è la sospensione del tempo etc etc etc” è un tale tripudio di astrazioni su astrazioni da poter sottendere, indifferentemente l’esistenza o l’inesistenza pura, a secondo dell’estro semantico del momento… sarà che i misticismi della parola trascendono dall’autobus a una fermata che non è la mia.
    sarà per questo, come sopra per le dissonanze, che trovo più amabili gli storti o i rovesci rispetto al Diritto.
    : )))
    nel complesso, dunque, qui ho scorto più del solito divertissement filosofico, nel senso che la tua scrittura è un po’ come la pubblicità di Virna Lisi a Carosello, il cui tormentone recitava “con quella bocca può dire ciò che vuole”. resta però il fatto che siamo nell’ambito dell’eccellenza, ma di uno di quei borborigmi del pensiero magari spassosi da leggere, ma utili solo a dimostrare tutto e il contrario di tutto, come ben sa Derrida, che assai spesso pare che se la conti e se la rida.
    : ))

    RispondiElimina
  2. malos... l'analisi, che leggo con un certo ritardo, mi pare a suo modo acuta e brillante... però mi sembra che svaluiti troppo una serie di questioni... non so se questo pezzo è spassoso (!) come dici, ma ancor meno so se voleva essere spassoso... io penso che tutta la mia scrittura ruoti intorno a queste tematiche qua, così come ci ruotano, senza che ce ne rendiamo conto, tutte le nostre vite... non so se un problema di "spasso", attività di diversione (di-vertimento) e rimozione...ma magari, chissà, anche il padeterno se la spassa e il mio è un falso problema...
    livio b.

    RispondiElimina