lunedì 27 agosto 2012

ancora sul percepire

nessuno prenderà granché sul serio questo blog e il suo discorso sulle percezioni,
pure i 3 lettori della statistica troveranno presto di meglio da fare, e persino qualche amico scrittore che mi ama, qui ci vedrà il mio peggio...
ma gli amici scrittori, che scrivono così bene, ci stanno portando esattamente dove ci portano i politici, che parlano così bene...

io faccio anch’io – anche – lo scrittore, lo scribacchino, lo scrivano – ma grazie a dio scrivo male.
a me interessa solo sentire bene, pensare – che è infine una forma del sentire – bene.

quel che penso, è che il compito di chi scrive, in quest’epoca iperestetizzata, e ipoestesizzata, è lavorare sulle percezioni preliminari, e abbassare il tasso di ciò che si chiama letteratura e ricerca sulla forma...
 
dove vorrei portare chi legge, è ad accorgersi che il mondo non è il mondo, che la sfoglia la fetta sottilissima micrometrica che ne percepiamo – e che indubbiamente rappresenta una cresta di regolazione, un punto d’equilibrio fra la sue strutture e la mediana della carne d’uomo – è una delle infinite conoscibili e inconoscibili, che basta una lente gialla, un incubo, un estratto vegetale irrorato nel sangue, una macchina radiologica, o quella straordinaria e anche salubre macchina psichica che è la lingua, per constatarne mille altre.

è un’operazione che ci è dato fare solo col linguaggio, inteso come codice, come logos, non come gergo verbale. il linguaggio dei colori e delle linee, dei sentimenti e degli ormoni e neurotrasmettitori che li veicolano o costituiscono, o quel linguaggio così profondamente interiorizzato da non sembrare arbitrario che è la logica. con la lingua, possiamo individuare faglie, assottigliamenti del tegumento, scommessure, smagliature della patina compatta, e divaricarle, e spellarlo, sguainarlo – possiamo intravedere le membrature del visibile, e ciò che le può riempire...

 la lingua estrae dal mondo il mondo felice che intravediamo solo a tratti, per illuminazioni, il mondo che premonirono i preti 1000 anni fa, e marx 100 anni fa, e rimbaud durante la sua folgorante e meteoritica combustione

 per ripescare questo mondo affondato com’è nel mondo, bisogna ritrovare il contatto con gli elementi, e innanzitutto con quell’elemento che siamo.

bisogna vedere il cielo come una carne, e le nostre parole come una carne d’aria e tremolamenti, bisogna sentire la continuità col primo e l’ultimo punto delle cose.

3 commenti:

  1. Livio, rassegnati: scrivi bene anche tu, anzi benissimo. Il tasso di letterarietà non si abbassa solo perché usi i puntini di sospensione e l’anacoluto, spezzetti i periodi, riprendi un tema, adotti toni (involontariamente?) lirici, ricorri alla contrazione, all’aforisma, al paradosso. La necessità di esprimere concetti ardui e inusitati (o semplici, elementari, corporali, non verbali o non verbalizzabili, quindi ancor più inusitati) ti porta sempre più avanti nella sperimentazione, nella ricerca sofisticata di un linguaggio aderente al corpo, alle cose, all’essenza; ti porta insomma sempre più avanti nella ricerca formale. La forma perfetta non è che aderenza a ciò che si vuole comunicare. E’ questione di funzionalità. Scrivere male, quindi, è l’artificio estremo. Sei il più sincero degli scriventi ovvero il più falso, il più ricco di retorica.
    elio paoloni

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  2. Se ogni tanto la forma viene, tanto meglio, è quello che resta, anzi, quella è l’unica forma che vale... ma io parto sempre da concetti, sentimenti, impulsi etici e cioè pratici, non faccio letteratura... se poi accidentalmente e inaspettatamente prendono forma, è meglio, ma non gioco... per cui mi va bene anche saviano, anche il documentario, anche di pietro (come linguaggio, come forma, non come contenuti...che si è dimostrato un politicante pure lui), anche baglioni (il primo, non il simpaticone versione fazio) ... insomma chi scrive sempre in scrittura va a parare, ma cambia molto se sei uno che dà un controvalore alle parole, e le seleziona con quel criterio, e la bellezza in sé la cerca magari nell’eros ... c'è una scrittura che produce effetti, e una che produce letteratura
    livio

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  3. "Alla fine di una giornata di lavoro emergo con le pagine di quello che uso chiamare 'quello che volevo dire'. Ma ora mi chiedo con maggiore cautela: queste parole stampate sulla carta, sono davvero quello che volevo dire? E' sempre sufficiente dire, come resoconto fenomenologico, che da qualche parte nel profondo, sapevo quello che volevo dire, dopodiché ho cercato i segni verbali appropriati e li ho rigirati fino a che non sono riuscito a dire quello che volevo? Non sarebbe forse più accurato dire che giocherello con una frase fino a che le parole sulla pagina non 'suonano' o non 'sono' giuste, e allora smetto di giocherellare e mi dico: 'Questo dev'essere quello che volevi dire'? Se così è chi è che giudica quello che suona giusto oppure no? Sono necessariamente Io ('Io')?

    J.M. Coetze, Diario di un anno difficile

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